Studio Legale Avv. Conigliaro – avvocati palermo
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RESPINTA ISTANZA BERLUSCONI: All’assegno di separazione non si applicano i nuovi principi sanciti per i divorziati

22 Maggio 2017

La Cassazione (sentenza n. 12196/2017) ha respinto la richiesta di Silvio Berlusconi in merito alle somme corrisposte alla ex moglie Veronica Lario in regime di separazione. In particolare nel ricorso veniva eccepito come la ex moglie non avesse diritto a percepire la somma di due milioni al mese (somma ridotta rispetto ai 3 milioni e seicentomila iniziali) in funzione delle sue capacità artistiche e quindi di poter di produrre reddito in proprio. Nella sentenza viene anche richiamata la recente pronuncia della Cassazione n. 11504/2017 che ha rivoluzionato il criterio di determinazione del quantum da corrispondere in regime di divorzio. Non più da considerare sulle condizioni di vita godute in costanza di matrimonio ma sulla base dell’autoresponsabilità economica, proprio per evitare che in condizioni di estremo benessere di uno dei coniugi l’altro potesse approfittarne non lavorando. Il principio, tuttavia, precisa la Corte, non riguarda la separazione, fase prodromica al divorzio per la quale invece restano immutate le regole con il riferimento quanto alla determinazione del quantum alle condizioni di vita godute in costanza di matrimonio.

mantenimento jpg

«Vale bene evidenziare in via preliminare – scrivono i giudici – la sostanziale diversità del contributo in favore del coniuge separato dall’assegno divorzile, sia perché fondati su presupposti del tutto distinti, sia perché disciplinati in maniera autonoma e in termini niente affatto coincidenti».

«Premesso che, come già rilevato – prosegue la sentenza -, la separazione personale dei coniugi, a differenza dello scioglimento del matrimonio o della cessazione dei suoi effetti civili non elide, anzi presuppone, la permanenza del vincolo coniugale, deve ribadirsi che il dovere di assistenza materiale, nel quale si attualizza l’assegno di mantenimento, conserva la sua efficacia e la sua pienezza in quanto costituisce una dei cardini fondamentali del matrimonio e non presenta alcun aspetta di incompatibilità con la situazione, in ipotesi anche temporanea, di separazione». E sotto il profilo patrimoniale, pur considerando la crisi economica internazionale, «la Corte territoriale ha posto in evidenza il rilevante divario fra le condizioni patrimoniali e reddituali degli ex coniugi, ponendo in risalto, infine, l’ammissione dello stesso Berlusconi di essere “ultracapiente”».

«Altrettanto non può affermarsi – conclude sul punto il Collegio – in merito alla solidarietà post-coniugale alla base dell’assegno di divorzio: al riguardo, è sufficiente richiamare la recente sentenza di questa Corte n. 11504 del 10 maggio 2017, le argomentazioni che la sorreggano (e, in particolare, il n. 2.2., lettera A, pag. 8) ed i principi di diritto con essa enunciati».

Per maggiori informazioni contatta lo studio legale Avvocati Palermo al n.328.4844411, al n.091.8436402 0 scrivi una mail avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Stop alle aggressioni in rete. Ecco la legge sul cyberbullismo

19 Maggio 2017

Stop alle aggressioni in rete, specialmente quando ad esserne vittime sono i minori. La Camera ha definitivamente approvato, con un voto all’unanimità, la legge sul cyberbullismo, i cui “cardini” sono una stretta sul web e il coinvolgimento delle scuole nel contrasto di quelle molestie online che in troppi casi hanno portato chi ne è stato vittima a togliersi la vita.

cyber_bulliLa definizione – Entra per la prima volta nell’ordinamento una puntuale definizione legislativa di cyberbullismo. Bullismo telematico è ogni forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, manipolazione, acquisizione o trattamento illecito di dati personali realizzata per via telematica in danno di minori. A ciò si aggiunge la diffusione di contenuti online (anche relativi a un familiare) al preciso scopo di isolare il minore mediante un serio abuso, un attacco dannoso o la messa in ridicolo.


Oscuramento del web
– Il minore sopra i 14 anni vittima di cyberbullismo (o anche il genitore) può chiedere al gestore del sito internet o del social media o al titolare del trattamento di oscurare, rimuovere o bloccare i contenuti diffusi in rete. Se non si provvede entro 48 ore, l’interessato può rivolgersi al Garante della privacy che interviene direttamente entro le successive 48 ore. Dalla definizione di gestore, che è il fornitore di contenuti su internet, sono esclusi gli access provider, i cache provider e i motori di ricerca.

Docente anti-bulli in ogni scuola – In ogni istituto tra i professori sarà individuato un referente per le iniziative contro il cyberbullismo. Al preside spetterà informare subito le famiglie dei minori coinvolti in atti di bullismo informatico e attivare adeguate azioni educative. L’obbligo di informazione è circoscritto ai casi che non costituiscono reato. Più in generale, il Ministero dell’Istruzione ha il compito di predisporre linee di orientamento di prevenzione e contrasto puntando sulla formazione del personale scolastico, la promozione di un ruolo attivo degli studenti e la previsione di misure di sostegno e rieducazione dei minori coinvolti, mentre ai singoli istituti è demandata l’educazione alla legalità e all’uso consapevole di internet. Alle iniziative in ambito scolastico collaboreranno anche polizia postale e associazioni territoriali.

Ammonimento da parte del questore – In caso di ingiuria, diffamazione, minaccia o trattamento illecito di dati personali via web, fino a quando non vi sia una querela o denuncia il “cyberbullo”, sulla falsariga di quanto già è previsto per lo stalking, potrà essere formalmente ammonito dal questore che lo inviterà a non ripetere gli atti vessatori. Insieme al minore sarà convocato anche un genitore. Gli effetti dell’ammonimento cessano al compimento della maggiore età. Piano d’azione e monitoraggio. Presso la Presidenza del Consiglio verrà istituito un tavolo tecnico con il compito di redigere un piano di azione integrato per contrastare e prevenire il cyberbullismo e realizzare una banca dati per il monitoraggio del fenomeno.

Per maggiori informazioni, contatta lo studio legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail avv.conigliaro@avvocatipalermo.com 

Il diritto a non essere demansionato prevale sulla spending review dell’imprenditore

4 Maggio 2017

Illegittimo il licenziamento se il datore non provvede al repechage. Ma il “ripescaggio” deve essere eseguito in relazione alla professionalità acquisita e, quindi, utilizzato per ricollocare il dipendente in una posizione di pari prestigio rispetto a quella rivestita in passato. In caso contrario si tratta di demansionamento che supera l’esigenza di ristrutturazione del datore di chiudere un determinato reparto. Questo in estrema sintesi il contenuto della sentenza della Cassazione n. 9869/2017.

licenziamento-La vicenda. La Corte si è trovata alle prese con un dipendente che, dall’ottobre 2008, aveva svolto le funzioni di responsabile del servizio dedicato alla formazione in qualità di quadro. In seguito l’azienda, per esigenze di spending review, aveva assegnato ad altro soggetto la direzione dell’impresa e il ricorrente era stato designato responsabile delle relazioni con i clienti presso la struttura di Foligno. Era stato cioè assegnato presso una sede a 50 chilometri dalla sua residenza e con mansioni inferiori. La Cassazione si è pronunciata ponendo sui due piatti della bilancia l’interesse del datore di procedere a una riorganizzazione dell’organico e il diritto del dipendente a mantenere lo stesso livello di inquadramento senza subire condizioni lavorative peggiori. Ha prevalso l’interesse del dipendete. Questo perché – si legge nella sentenza – da una parte è vero che l’imprenditore può procedere alla riorganizzazione della struttura e le modalità con cui è effettuata spettano esclusivamente all’imprenditore senza che il giudice possa metterle minimamente in discussione. Il tutto rientra, infatti, in una chiara logica di libertà di iniziativa economica tutelata dall’articolo 41 della Costituzione. Secondo la Corte, quindi, non è sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità la decisione imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo eseguito.

Il ripescaggio mirato. Nella sentenza si legge, tuttavia, che ricade sul datore l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili e, quindi, spetta al datore di lavoro dimostrare la mancanza di possibilità di reimpiego del lavoratore in posizioni dal contenuto equivalente a quella soppressa in termini di professionalità acquisita. In attuazione di questo principio non può essere ritenuta sufficiente di per sé la sola – ai fini dell’integrale adempimento degli obblighi di repechage – la proposta di assegnazione del lavoratore a mansioni di livello professionale inferiore. La Cassazione ha, pertanto, accolto il ricorso del lavoratore, cassato la sentenza e rinviato l’esame della vicenda alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Per maggiori informazioni contatta lo studio legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

“Kiss and FLy” all’aeroporto di Palermo: illegittime le sanzioni amministrative

23 Marzo 2017

In termine tecnico si chiama “Ztc”, zona a traffico controllato, ma gli assidui frequentatori degli aeroporti la conoscono come “kiss and fly”.

Si tratta delle area nelle quali è consentito sostare brevemente per accompagnare un passeggero o accoglierlo davanti alla zona arrivi senza pagare nulla; insomma “un bacio e via”.

aeroportoDopo il via libera dell’Enac la “kiss and fly”, a far data dal novembre 2015, arriva anche al “Falcone e Borsellino” nei “curb” (i marciapiedi) delle zone arrivi e in quelli delle partenze.

Gli “occhi” elettronici delle telecamere sono chiamati a vigilare sulla durata della sosta registrando i numeri di targa.

Ecco, dopo solo 15 minuti dalla sosta, scattare le multe: da 38 a 155 euro per le due ruote, da 80 a 318 euro per auto e altri veicoli.

Lo Studio Legale Avvocati Palermo ha promosso una class action, al fine di tutelare i soggetti incorsi in sanzioni amministrative elevate dal Comune di Cinisi.

Il Giudice di Pace di Palermo, con diverse pronunce, si è espresso a favore della nullità delle contravvenzioni elevate per superamento del tempo massimo consentito, dichiarando l’illegittimità dell’importo asseritamente vantato dal Comune di Cinisi.

Per maggiori informazioni, o per avere una consulenza in merito, contatta lo Studio Legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivici una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Ritorsivo, e pertanto illegittimo, il licenziamento di chi ironizza sull’azienda in una chat coi colleghi

23 Febbraio 2017

Va considerato illegittimo, in quanto ritorsivo, il licenziamento di un dipendente assunto a tempo indeterminato a seguito di una vertenza giudiziaria, per aver pubblicato su una chat privata di Facebook, nella quale i lavoratori si scambiavano informazioni sull’incontro sindacale per il rinnovo del contratto integrativo, una immagine raffigurante un coperchio di vasellina cui era sovrapposto un disegno ed il marchio Gucci. Lo ha confermato la Corte di cassazione, con la sentenza 31 gennaio 2017 n. 2499, dichiarando inammissibile il ricorso dell’azienda.

Licenziamento-illegittimo-come-stabilire-quanto-dovuto-al-lavoratore-370x230Nel dicembre del 2012, la società aveva licenziato il dipendente per «motivi disciplinari» accusandolo di aver «gravemente offeso l’immagine dell’azienda». Il dipendente, però, aveva proposto ricorso e il Tribunale di Firenze l’ha accolto ritenendo insussistente la violazione disciplinare «per essere stato esercitato il diritto di critica e di satira». Proposto reclamo, la Corte di Appello l’ha rigettato. Per il Collegio infatti «l’addebito disciplinare rappresentava un pretesto per allontanare un lavoratore rientrato da appena un anno in esito al precedente contenzioso, che si era dimostrato, con la partecipazione attiva alla chat, per nulla remissivo alle iniziative datoriali sulla organizzazione dei lavoro, cercando di coinvolgere altri colleghi nella contestazione nella fase di rinnovo degli accordi sindacali aziendali». Non solo, data la «banalità del fatto contestato» consistito nel pubblicare l’immagine di una vignetta satirica «non dissimile dalle rappresentazioni quotidianamente diffuse dai mass media», era del tutto assente un motivo legittimo di licenziamento. Inoltre il disegno aveva ricevuto una diffusione limitata ai dieci colleghi della chat. Mentre l’accesso dall’esterno restava del tutto eventuale. E comunque non risultava che la vignetta avesse avuto diffusione sul web né che potesse avere qualche interesse per il pubblico degli acquirenti del marchio Gucci.

Nel ricorso in Cassazione la società, invece, ha insistito nel negare la natura ritorsiva del licenziamento, non essendo stata offerta alcuna prova in merito, dal momento che la precedente controversia era stata conciliata tra le parti. Inoltre era stato licenziato anche un altro dipendente. Tantomeno poteva invocarsi il diritto di critica, considerato che «l’immagine era gratuitamente lesiva del decoro del datore di lavoro». Infine la sentenza non offriva alcuna giustificazione della asserita «banalità» della pubblicazione, non considerando «la lesione dell’immagine del gruppo». Per la Suprema corte però la questione è inammissibile «giacché il giudice del merito ha considerato la potenziale lesione dell’immagine aziendale derivata dalla condotta contestata che ha escluso argomentando sulla limitata diffusione della vignetta (tra i dieci partecipanti alla chat) e sulla assenza di prova di una sua divulgazione all’esterno dell’ambiente di lavoro». E al caso si applica ratione temporis il vigente testo dell’articolo 360 n. 5 del cpc secondo cui il vizio di motivazione è deducibile soltanto in termini di omesso esame di un fatto decisivo.

Per maggiori informazioni contatta lo Studio Legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Gioielli della moglie a rischio confisca se il marito è condannato per reati fiscali

14 Febbraio 2017

Corte di cassazione -Sezione III penale – Sentenza 13 febbraio 2017 n. 6595

Il marito che evade le imposte rischia di far confiscare i gioielli della moglie. Questo in sintesi il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 6595/2017. La Corte si è trovata alle prese con un appello della procura contro la sentenza del Tribunale del riesame che, in riferimento al mancato adempimento tributario del marito, aveva ritenuto illegittima la misura cautelare reale che andava a colpire i gioielli appartenenti alla moglie. I giudici di appello hanno ricordato, infatti, come non fosse stato disposto un sequestro preventivo emesso direttamente nei confronti della donna, titolare di redditi propri. Nella decisione di secondo grado era stato ricordato peraltro come mancasse la prova che i beni fossero nella disponibilità del marito.

gioielli-confiscati

L’appello della procura. La procura nell’appello evidenzia, invece, come nella consuetudine ci siano beni come ad esempio orologi o automobili che possono essere utilizzati da entrambi i coniugi. E la Cassazione ha accolto l’appello della procura sulla base di quanto disposto dall’articolo 12-bis del Dlgs 74/2000 in base a cui deve essere sempre ordinata la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato. Per bene disponibile va inteso quello di cui si possa vantare il possesso. L’uso è un dato esteriore che dimostra la disponibilità del bene da parte del coniuge, ma non esclude quella dell’altro, legittimando semmai la confisca al 50 per cento del valore del bene stesso. L’uso esclude la disponibilità dell’altro coniuge solo quando ha ad oggetto un bene strettamente personale che, per questa ragione, è sottratto alla comunione legale ex articolo 179, comma 1, del codice civile. Nella decisione – si legge – che la comunione legale dei beni non ostacola di per sé alla confisca pro quota del bene che ne costituisce oggetto. Ciò sul rilievo che tale regime patrimoniale, per esempio non esclude la disponibilità dell’immobile da parte dell’autore del reato e non lo sottrae all’azione esecutiva dei creditori particolari del coniuge salvo in tal caso l’assegnazione favore dell’altro della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo. Va ricordato che in caso di comunione legale dei beni gli acquisti effettuati dopo il matrimonio sono di proprietà anche dell’altro coniuge, ameno che non si tratti di beni strettamente personale del tutto sottratti, in quanto tali alla disponibilità dell’altro.

Conclusioni della Corte. Ne consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Roma che nel riesaminare l’appello dovrà verificare quel che sia il regime patrimoniale dei coniugi e in caso di comunione legale dei beni, escludere dal sequestro solo i beni di natura strettamente personale della moglie. In caso contrario i giudici dovranno verificare se il reddito della donna fosse tale da giustificare l’acquisto dei beni sequestrati e ove ciò non fosse possibile, onerare quest’ultima della prova della sua disponibilità esclusiva di tali beni.

Alcune riflessioni. Ora la decisione lascia qualche perplessità sul campo. Questo perché se si volesse dare una lettura rigorosa all’articolo 179 del codice civile in particolare del comma 1, lettera c) che fa riferimento ai beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge e i loro accessori, alcuni beni come bracciali, orecchini, collane o monili destinate a un pubblico esclusivamente (o prevalentemente) femminile è difficile credere che possano appartenere (quanto all’uso) anche all’altro coniuge e quindi legittimare la confisca per il 50 per cento del bene. Anche perché se così fosse i beni andrebbero necessariamente venduti con possibili e negative ripercussioni economiche per il proprietario. E per la moglie in buona fede sarebbe una doppia beffa. Infatti si vedrebbe espropriata dei propri beni e ripagata con il 50% del valore realizzato dalla vendita giudiziaria. Diverso il discorso e comunque non completamente immune da osservazioni quando la controparte deve dimostrare che possieda un reddito tale da potersi permettere certi gioielli che appartengano al godimento proprio ed esclusivo. Si pensi alla circostanza che certi gioielli possano essere frutto di un’eredità, di un regalo di terzi e comunque la circostanza che solo perchè rientrano nella comunione legale possano essere aggrediti. Il tutto delinea un’ipotesi piuttosto singolare visto che come previsto dalla norma la misura cautelare deve colpire comunque quei beni che abbiano un’attinenza con il reato tributario. E di qui il vincolo di inerenza se non impossibile, risulta molto difficile da dimostrare.

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