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La caduta su area privata attigua alla strada pubblica: obbligo del Comune di risarcire il danno

8 Febbraio 2017

Il Comune è tenuto alla manutenzione anche delle parti di strada che appartengono al privato, ma che conducono sulla via principale di esclusiva competenza dell’amministrazione. In caso di sinistro, pertanto, su questa area dissestata ne risponde l’ente locale. Questo il significativo principio di diritto espresso dalla Cassazione con l’ordinanza n. 3216/2017.

cadutaLa vicenda. Alla base della pronuncia una vicenda in cui una signora in un piccolo centro della Puglia era caduta in terra, per il cattivo stato del manto stradale, procurandosi lesioni personali. L’evento era accaduto su una parte di strada non di proprietà comunale e così l’esito nei giudizi di merito era stato differente. Mentre, infatti, i giudici di prime cure avevano ritenuto che la signora dovesse essere risarcita costituendo quella parte di strada parte integrante della via e quindi il carente stato di manutenzione era imputabile esclusivamente alla negligenza dell’amministrazione tenuta per intero al risarcimento. Di diverso avviso, invece, la Corte d’appello di Bari che, con la sentenza 31 dicembre 2013 n. 1904, ha accolto l’appello del Comune. I giudici di secondo grado in particolare hanno rilevato come non fosse stato provato che il tratto di strada su cui era avvenuta la caduta fosse di proprietà comunale.

La posizione della Cassazione. I Supremi giudici sul punto hanno precisato che l’amministrazione è tenuta a garantire la circolazione dei veicoli e dei pedoni in condizioni di sicurezza. A tale obbligo l’ente proprietario della strada viene meno non solo quando non provvede alla manutenzione di quest’ultima, ma anche nel caso in cui il danno sia derivato dal difetto di manutenzione di aree limitrofe alla strada, atteso che è obbligo comunque dell’ente verificare che lo stato dei luoghi consenta la circolazione dei veicoli e dei pedoni in totale sicurezza. Infatti – si legge nell’ordinanza – il Comune che consenta alla collettività l’utilizzo per pubblico transito di un’area di proprietà privata si assume l’obbligo di sincerarsi che la manutenzione dell’area e dei relativi manufatti non sia trascurata. Ne consegue pertanto che l’inosservanza di tale dovere di sorveglianza costituisce un obbligo primario della pubblica amministrazione per il principio del neminem laedere integra gli estremi della colpa e determina la responsabilità per il danno cagionato all’utente dell’area, non rilevando che l’obbligo della manutenzione incomba sul proprietario dell’area medesima. Si tratta di conclusioni che, sebbene siano supportate da precedenti giurisprudenziali, lasciano sul campo qualche perplessità. In particolare non si comprende perché in queste ipotesi non possa essere riconosciuta una corresponsabilità perché se da un lato si tratta di aree attigue alla strada pubblica è pur vero che da un punto di vista strettamente giuridico la proprietà rimane sempre al privato che ne dovrebbe rispondere se non altro per il titolo (quindi uti dominus) così come previsto dall’articolo 2055 del codice civile.

Il principio di diritto. La Corte in definitiva ha espresso il seguente principio di diritto: “E’ in colpa la pubblica amministrazione la quale né provveda alla manutenzione o messa in sicurezza delle aree, anche di proprietà privata, latistanti le vie pubbliche, quando da esse possa derivare pericolo per gli utenti della strada, né provveda a inibirne l’uso generalizzato. Ne consegue che, nel caso di danni causati da difettosa manutenzione di una strada, la natura privata di questa non è di per sé sufficiente ad escludere la responsabilità dell’amministrazione comunale, se per la destinazione dell’area o per le sue condizioni oggettive, l’amministrazione era tenuta alla sua manutenzione”. Accolta la richiesta del cittadino con cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla Corte d’appello di Bari in diversa composizione.

Per saperne di più scrivi una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com o chiama lo Studio Legale Avvocati Palermo al n.091.8436402

Lavoratore in malattia. Obblighi posti a carico e giusta causa di licenziamento.

9 Gennaio 2017

Lavoratore in malattia. Obblighi posti a carico e giusta causa di licenziamento.

Corte di cassazione – Sezione lavoro – Sentenza 4 gennaio 2017 n. 65.

Il lavoratore in malattia evita il licenziamento se si allontana dal domicilio comunicandolo preventivamente al datore. Non può, invece, sottoporsi il giorno successivo alla visita fiscale a controlli che accertino come il giorno prima stesse effettivamente in malattia. In questo caso la rottura con l’azienda è inevtabile. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 64/2017.

obblighi-del-lavoratore-dipendente-in-caso-di-malattia-370x230La sentenza dei giudici di merito. La Corte ha così confermato la sentenza dei giudici di secondo grado secondo cui la permanenza presso il proprio domicilio durante le fasce orarie previste per le visite mediche domiciliari di controllo costituisce non già un onere ma un obbligo per il prestatore ammalato, in quanto l’assenza, rendendo di fatto impossibile il controllo in ordine alla presenza o meno della malattia, integra un inadempimento, sia nei confronti dell’istituto previdenziale, sia nei confronti del datore, che ha tutto l’interesse a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa e perciò a controllare l’effettiva sussistenza della causa che impedisce tale prestazione. I Supremi giudici affermano come la Corte territoriale avesse esaminato accuratamente la documentazione attinente alle assenze riscontrate in occasione delle visite fiscali domiciliari e alle giustificazioni fornite dal lavoratore, rilevando, all’esito di tale accertamento di fatto, che l’allontanamento dal domicilio non era risultato essere assistito da valide giustificazioni e che, in ogni caso, lo stesso non escludeva l’obbligo per il prestatore di comunicare di volta in volta l’assenza per consentire all’azienda di controllare, tramite l’Inps, l’effettività della sua malattia. Elemento, poi, decisivo nella sentenza di merito è consistito nella circostanza che il rapporto fiduciario caratterizzante l’incarico dirigenziale comportasse una valutazione maggiormente rigorosa del comportamento della lavoratrice, dell’attendibilità dei fatti contestati a titolo di grave negligenza e dell’idoneità dello stesso, ripetuto per ben tre volte nell’arco temporale di circa due mesi a riprova del disinteresse dimostrato per le esigenze datoriali, a incidere in modo definitivo sul vincolo fiduciario.

La giusta causa del licenziamento. Sul punto è sicuramente pertinente il richiamo fatto alla sentenza n. 2013/2012 secondo cui “in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto a un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo”.

Per informazioni e chiarimenti in merito contatta lo Studio Legale Avvocati Palermo inviando una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com o contattaci al n.091.8436402

Sanzioni per violazione del Codice della Strada: legittima la maggiorazione del 10% semestrale

21 Ottobre 2016
Mentre il Governo mette a punto il Dl fiscale, contenente l’addio a Equitalia e una «rottamazione delle cartelle» ancora da definire, l’Agente della riscossione incassa una importante vittoria in Cassazione. In tema di sanzioni amministrative per violazione del codice della strada, infatti, la Suprema corte, sentenza 20 ottobre 2016 n. 21259, ha ribadito la legittimità della maggiorazione del dieci per cento semestrale nel caso di ritardo nel pagamento. Via libera dunque all’iscrizione a ruolo, e all’emissione della cartella esattoriale, per un importo che, oltre a quanto dovuto per la sanzione principale e per le spese del procedimento, includa anche l’aumento derivante da quella che a tutti gli effetti deve ritenersi una «sanzione aggiuntiva».

equitaliaI giudici hanno così accolto il ricorso di Equitalia Sud contro la sentenza del Tribunale di Roma che, in qualità di giudice dell’appello, aveva dato ragione all’automobilista, dichiarando l’inapplicabilità della maggiorazione prevista dall’articolo 27 della legge 689/1981 alle violazioni del codice della strada.

La decisione di secondo grado si basava su di un unico precedente di Cassazione, sentenza n. 3701/2016, secondo cui «alle sanzioni, come nella specie stradali, si applica l’art. 203 C.d.S., comma 3, che, in deroga alla legge n. 689 del 1981, art. 27, in caso di ritardo nel pagamento della sanzione irrogata nell’ordinanza – ingiunzione, prevede, l’iscrizione a ruolo della sola metà del massimo edittale e non anche degli aumenti semestrali del 10%». Una decisione rimasta isolata in seno alla giurisprudenza di legittimità che però aveva goduto di un certo seguito applicativo da parte delle Prefetture. Per esempio da quella di Novara che il 9 ottobre 2013, dopo aver raccolto il parere favorevole dall’Avvocatura dello Stato, aveva diramato una nota ai comandi della Polizia stradale di Torino, Biella, Alessandria, Vercelli, Asti e Verbania, perché aggiornassero i propri sistemi informatici che operavano in modo automatico il ricalcolo.

Ma tant’è, la Cassazione ritiene che l’orientamento favorevole agli automobilisti è stato «definitivamente superato» con la sentenza n. 1884/2016 secondo cui: «La maggiorazione del dieci per cento semestrale per il caso di ritardo nel pagamento della somma dovuta, ha natura di sanzione aggiuntiva, che sorge dal momento in cui diviene esigibile la sanzione principale, sicché è legittima l’iscrizione a ruolo, e l’emissione della relativa cartella esattoriale, per un importo che includa, oltre a quanto dovuto per la sanzione principale, anche l’aumento derivante dalla sanzione aggiuntiva». E la decisione di oggi rafforza ulteriormente questa posizione facendo proprio l’argomento di Equitalia Sud che nel ricorso ha richiamato la lettera dell’articolo 206 del Cds che recita testualmente «se il pagamento non è effettuato nei termini […] la riscossione delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria è regolata dall’art. 27 della stessa legge 24 novembre 1981, n. 689». Né – prosegue la sentenza – si può ritenere, dopo una «lettura di sistema», che il rinvio «si riferisca esclusivamente alle modalità dì riscossione mediante ruoli, non anche agli importi da iscrivere a ruolo, che resterebbero perciò disciplinati dall’art. 203, C.d.s., terzo comma». Considerato anche che «gli interessi sono esclusi dalla previsione dell’art. 203 e non vi è alcuna norma apposita che ne regoli la riscossione in difformità da quanto previsto dall’art. 27».

Lavoro irregolare, il datore può provarne l’inizio anche per testi

18 Ottobre 2016

La prova che il rapporto di lavoro irregolare, emerso a seguito di una ispezione dell’Inps, non fosse in corso dall’inizio dell’anno, come presunto dalla legge, può essere fornita dal datore di lavoro anche per testimoni e non deve dunque necessariamente essere documentale. Con questa motivazione la Corte d’Appello di Palermo, sentenza 6 giugno 2016 n. 1094, ha bocciato il ricorso dell’Agenzia delle Entrate.

Il tribunale di Agrigento, sezione distacca di Licata, aveva accolto l’opposizione del convenuto contro ladati-occupazione-inps sanzione amministrativa di 31mila euro irrogatagli dal Fisco a seguito del rinvenimento, nel maggio 2013, di tre operai intenti a lavorare nella sua abitazione senza essere stati registrati nel libro paga e matricola, rideterminando la sanzione nella misura molto più esigua di 600 euro. L’opponente infatti aveva sostenuto che gli operai erano stati assunti il giorno prima al solo scopo di ripavimentare una scala, circostanza poi confermata dai testi ascoltati che avevano riferito di una durata complessiva dei lavori di pochi giorni. Per le Entrate, però, nessun peso si poteva dare a simili dichiarazioni in quanto «non risultavano da documenti ma da una (mera) prova testimoniale, che era poco attendibile perché proveniente da soggetti non disinteressati ed alla quale poteva, al più, attribuirsi valore indiziario».

Per la Corte territoriale, invece, l’assunto secondo cui «il datore di lavoro per dare la prova della effettiva durata del rapporto di lavoro instaurato “in nero”, deve ricorrere a documenti, essendo al riguardo insufficiente la prova testimoniale, è senz’altro infondato». In proposito, prosegue la sentenza, è corretto quanto affermato dal tribunale secondo cui l’onere di fornire la prova che il rapporto di lavoro irregolare abbia avuto inizio in una data diversa da quella del primo gennaio dell’anno in cui è stata accertata la violazione, «grava evidentemente sul datore di lavoro, ma, diversamente da quanto affermato dall’ente resistente, non deve avere necessariamente natura documentale». Dunque, deve ammettersi che «la prova, in vista della riduzione della relativa sanzione, possa essere offerta anche a mezzo testimoni, salva evidentemente ogni valutazione in ordine all’attendibilità degli stessi». E l’attendibilità, conclude la Corte, è stata «attentamente» valutata dal Tribunale, che ha «analiticamente» esaminato le deposizioni rese, rilevando che «plausibili conferme» alle affermazioni si traevano dalla natura stessa dei lavori «che per essere limitati al rifacimento della pavimentazione di una scala, appare inverosimile che si siano protratti per un periodo superiore a quello indicato dal ricorrente».

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail all’indirizzo di posta elettronica avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Trasferimento del lavoratore presso altra sede: eventuale rifiuto e condizioni di ammissibilità

13 Ottobre 2016

Può il lavoratore rifiutarsi di adempiere la propria prestazione lavorativa, nel caso in cui la parte datoriale trasferisca la relativa sede di svolgimento?

La Corte di Cassazione, Sez. Lav., con la sentenza del 26 settembre 2016, n. 18866 ha sancito un indirizzo degno di nota.

trasferimentoEbbene, il trasferimento del lavoratore presso altra sede, giustificato da oggettive esigenze organizzative aziendali, può consentire al medesimo di richiederne giudizialmente l’accertamento della legittimità, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente e senza un avallo giudiziario – che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare – di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore, ai sensi degli articoli 2086 e 2104 del Cc, da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’articolo 41 della Costituzione e può legittimamente invocare l’articolo 1460 del Cc, rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell’altra parte.

Alla stregua del principio di diritto enunciato, la Suprema Corte ha dichiarato legittimo il licenziamento di una lavoratrice che era stata trasferita ad una nuova sede per esigenze di servizio, e non si era presentata nella nuova sede per prendere servizio. La sentenza ha precisato che la lavoratrice poteva fare ricorso perché fosse accertata in giudizio la legittimità del trasferimento, ma non poteva rifiutarsi di prendere servizio nella nuova sede.

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Se sono in malattia posso uscire?

10 Ottobre 2016

Quando si versa in uno stato di malattia e ci si assenta dal lavoro, può capitare di chiedersi cosa è possibile fare e cosa no.

Queste indicazioni, consentiranno a tutti i lavoratori di non incorrere in errori che potrebbero costare anche il licenziamento per giusta causa.

Durante gli orari della cosiddetta ‘reperibilità’, il lavoratore deve rimanere a casa o presso il diverso indirizzo comunicato all’azienda con il certificato medico (salvo le esenzioni per le malattie gravi) per consentire la visita fiscale del medico fiscale inviato dall’Inps.

il-lavoratore-in-malattia-deve-curarsi-per-una-pronta-guarigionePer i lavoratori del settore privato gli orari di reperibilità sono i seguenti: dalle 10 alle 12.00 e dalle 17 alle 19, 7 giorni su 7 (inclusi domeniche e festivi).

Per i dipendenti pubblici, invece: dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18, 7 giorni su 7 (inclusi domeniche e festivi).

Chi, durante gli orari di reperibilità, è costretto ad assentarsi da casa per una grave ragione deve comunicarlo prima e se non se ne ha il tempo, bisogna essere in grado di dimostrare tale urgenza.

In caso di assenza ingiustificata, il lavoratore i perde il trattamento di malattia, con modalità diverse a seconda che non ci si faccia trovare alla prima, alla seconda o alla terza visita.

Nei casi più gravi,  la parte datoriale può licenziare il dipendente.

Ma il lavoratore malato può uscire di casa dopo l’orario in cui può arrivare il medico fiscale?

La risposta è certamente affermativa. Ma ad una sola condizione: tale comportamento non può pregiudicare una pronta guarigione. Quindi il datore di lavoro può far pedinare il dipendente che esce di casa fuori dagli orari di reperibilità, tramite un investigatore privato o raccogliere testimonianze.

Non si può, quindi, licenziare il dipendente se la mancata permanenza in casa non è necessaria per la guarigione. Anche se il medico dell’Inps consiglia al dipendente malato di rimanere sotto le coperte. Ma ciò solo a condizione che il giudice si convinca che tale comportamento (l’uscita di casa) non abbia ritardato la guarigione e dunque il ritorno in servizio.

In sintesi, il lavoratore malato ben può riprendere (poco alla volta e lontano dagli orari della visita fiscale) le piccole incombenze della vita quotidiana fuori casa (come, ad esempio, andare a fare la spesa).

Si tratta, infatti, di attività che sicuramente pesano meno di una giornata in ufficio. Diversamente, le fasce orarie di reperibilità non avrebbero senso e costringere il convalescente a restare a casa si risolverebbe in una ingiustificata limitazione della libertà di movimento; il tutto, però, patto di non compiere attività che possano ritardare il ritorno in servizio.

In ogni caso spetta al datore dimostrare che la condotta del lavoratore è contraria agli obblighi di buona fede e correttezza in relazione agli impegni lavorativi attribuitigli, e quindi dar prova che l’uscita di casa ha rallentato la guarigione.

Per maggiori informazioni, contatto lo Studio legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

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