Studio Legale Avv. Conigliaro – avvocati palermo
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Patto di prova nullo, la reintegra scatta oltre i 15 dipendenti

7 Ottobre 2016

Nel caso di licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, una volta accertata la nullità di tale clausola – perché il lavoratore era stato già testato a sufficienza con diversi contratti a termine -, la tutela reale od obbligatoria dipende dalle dimensioni dell’azienda, che spetta al datore provare. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 12 settembre 2016 n. 17921, accogliendo, sotto questo aspetto, il ricorso proposto da un centro di formazione professionale.

Il caso – In secondo grado, la Corte di appello di patto-di-provaMessina dopo aver «annullato la risoluzione del rapporto e l’atto di recesso» – in quanto il patto di prova era «privo di causa» visti i due anni di collaborazione a progetto svolti sulle medesime materie – aveva condannato l’ente alla «riammissione in servizio e alla corresponsione delle retribuzioni dalla cessazione del rapporto fino alla effettiva reintegrazione». Per il Centro di formazione invece, per un verso, le attività erano almeno parzialmente differenti; per l’altro, anche se il patto di prova risulta nullo, «il licenziamento resta assoggettato alla disciplina sua propria e, quindi, la illegittimità comporta, in caso di insussistenza del requisito dimensionale, le conseguenze previste dall’art. 8 della legge n. 604/1966».

La motivazione – Per i giudici di Piazza Cavour, vista la precedente lunga collaborazione, la verifica doveva ritenersi già avvenuta «con esito positivo» per entrambe le parti, senza dunque che rilevino «la natura e la qualificazione dei contratti stipulati in successione (n.15960/2005) o «la diversa denominazione delle mansioni» (n. 17371/2015). Nè in sede di legittimità può essere censurato l’accertamento di eguaglianza effettiva delle mansioni (n. 17371/2015).

È invece fondato il secondo motivo. Infatti, «il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non è sottratto alla applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per la applicabilità della tutela reale».

La Corte territoriale ha quindi errato nel ritenere che «la nullità del patto di prova vanificasse gli effetti del recesso determinando, per ciò solo, la ricostituzione del rapporto, dovendo, al contrario, trovare applicazione la disciplina ordinaria sui licenziamenti e, quindi, in presenza dei requisiti rispettivamente richiesti, la tutela assicurata dalla legge n. 604/1966 o dall’articolo 18».

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio Legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Padre assente, scatta il risarcimento del danno dalla nascita

6 Ottobre 2016

Lo studio legale Avvocati Palermo intende sottoporVi all’attenzione una questione particolarmente complessa: le conseguenze dell’abbandono morale del figlio minore.

Ebbene, il Tribunale di Cassino, con la sentenza 15 giugno 2016 n. 832, ha condannato un padre a risarcire 52mila euro a titolo di danno «non patrimoniale» alla figlia naturale, ormai adolescente, per essere stato praticamente «assente» durante tutto il corso della sua vita, benché in regola con il pagamento del contributo mensile. L’uomo si era difeso sostenendo di non poter trascorre più tempo con la bambina, di cui il tribunale anni prima aveva accertato la paternità naturale, per non destare sospetti nella moglie con cui aveva altri figli.

figli-non-riconosciutiIl giudice ha anche accolto la richiesta della madre di vedersi attribuita una somma forfetaria per il mantenimento della minore per il periodo di circa un anno intercorrente tra la sentenza di riconoscimento giudiziale e il decreto che fissava in 400 euro il contributo mensile. Secondo il tribunale infatti «l’obbligo del genitore naturale di concorrere al mantenimento del figlio nasce proprio al momento della sua nascita, anche se la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza (Cass. n. 27653/2011)». E siccome la sentenza dichiarativa della filiazione naturale produce gli effetti del riconoscimento ciò comporta per il genitore tutti i doveri propri della procreazione legittima, incluso quello del mantenimento. «La conseguenza ineludibile, prosegue la sentenza, è che, anche nell’ipotesi in cui al momento della nascita il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, per ciò stesso non viene meno l’obbligo dell’altro genitore per il periodo anteriore alla pronuncia della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale». Infatti, «il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato, nei confronti di entrambi i genitori, è sorto fin dalla sua nascita (Cass. n. 3079/2015)». La giurisprudenza di legittimità ha altresì precisato che il diritto a favore del genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio fin dalla nascita, ancorché trovi titolo nell’obbligazione legale di mantenimento imputabile anche all’altro genitore, ha natura in senso lato indennitaria. Ne consegue che il giudice di merito, ove l’importo non sia altrimenti quantificabile, provvede, per le somme dovute dalla nascita fino alla pronuncia, secondo equità.

Riguardo il danno non patrimoniale per «abbandono morale», la sentenza afferma che sebbene la minore «nel corso dell’attività di osservazione risalente al 2012, appariva serena, con un percorso di evolutivo sostanzialmente regolare … nondimeno il CTU ha sottolineato le possibili problematiche nell’evoluzione della crescita psicologica e quelle, nella vita da adulta, attinenti alla formazione di rapporti sani e durevoli con l’altro sesso». La bambina, fra l’altro, nel 2015 ha riferito di avere incontrato il padre «non più di cinque volte», precisando che non le piace stare con lui «per appena due ore». Nella stessa udienza il papà ha messo in chiaro che «il timore che la moglie possa venire a conoscenza della dell’esistenza della figlia non gli consente di poterla incontrare se non per poche ore». Il padre, dunque, prosegue la sentenza, pur rispettando l’obbligo al mantenimento, è stato «del tutto assente» essendosi limitato a vederla «in rarissime occasioni, dietro palese sollecitazione del giudice». E tale privazione «integra un fatto generatore di responsabilità aquiliana c.d. endofamiliare la cui prova, secondo la S.C., può essere offerta anche sulla base di soli elementi presuntivi». Mentre la liquidazione non può che essere equitativa vista «l’obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova del quantum debeatur». In questo caso quantificato dal giudice in 52mila euro, pari a 4mila euro all’anno dalla nascita ad oggi.

E voi? cosa ne pensate? scrivete una mail a  avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Turnazione oltre il sesto giorno, il danno può essere presunto

29 Settembre 2016

Turnazione oltre il sesto giorno, il danno può essere presunto

Corte di cassazione – Sezione lavoro – Sentenza 13 settembre 2016 n. 17966

In caso di lavoro prestato per oltre sei giorni di seguito, il danno da «usura psicofisica» può essere presunto. E va indennizzato sulla base delle maggiorazioni previste dal contratto collettivo, o individuale, per altre voci. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 13 settembre 2016 n. 17966, accogliendo il ricorso di un dipendente di una società che realizza programmi televisivi.

Tired Sleeping Businessman at Work. Office Worker at his Workplace. Vector Illustration in Modern Flat Style

In primo grado il tribunale di Roma aveva condannato l’azienda a pagare ai lavoratori l’«indennità compensativa per il lavoro prestato nel settimo e ottavo giorno consecutivo». In appello invece la Corte territoriale ha respinto la domanda sostenendo che il datore era venuto incontro ad una richiesta dei dipendenti, «affinché – lavorandosi oltre il sesto giorno consecutivo – il riposo non coincidesse sempre con lo stesso giorno della settimana, ma potesse essere accorpato con altri giorni di riposo e coincidere anche con il sabato o con la domenica». Nel ricorso, tra l’altro, il lavoratore aveva sostenuto che era stato disatteso il principio per cui «chi lavora tutti i giorni della settimana ha diritto a due distinti trattamenti economici (diversi dall’indennità di turno), l’uno per la prestazione domenicale e l’altro (oggetto del presente contenzioso) per la maggiore penosità del lavoro prestato per più di sei giorni consecutivi». Mentre la sentenza impugnata aveva confuso quest’ultima indennità con il risarcimento dell’eventuale ulteriore danno determinato da superlavoro, questo sì da allegarsi e provarsi specificamente.

Per i giudici di Piazza Cavour i motivi sollevati sono fondati. Per prima cosa, spiega la sentenza, la Corte territoriale desume che la turnazione su oltre sei giorni sia stata fatta «per venire incontro alla richiesta dei lavoratori», non da un accordo sindacale ma semplicemente dalla mancata contestazione di tale affermazione fatta dalla difesa della società. Ora, prosegue la Corte, «è pur vero che la Cassazione S.U. n. 12065/14 e talune voci di dottrina hanno ventilato l’eventualità di estendere il principio di non contestazione anche ai fatti secondari, in virtù del nuovo testo dell’art. 115 co. 1 c.p.c. come sostituito dall’art. 45 legge n. 69/09», ma la novella è comunque applicabile solo ai giudizi successivi, e non dunque a quello odierno che è del 2004. Inoltre, nel caso affrontato, non siamo neppure di fronte ad un fatto secondario ma ad una «mera difesa (in quanto tale estranea ai principio di non contestazione)». In definitiva, conclude la Cassazione, «il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 416 cc. 2° c.p. c. non si applica alle mere difese, fra cui rientra anche l’assunto del datore di lavoro di aver stabilito una data turnazione fra i propri dipendenti per venire incontro ad una loro richiesta».

Venendo poi al merito della questione, i giudici hanno affermato il principio per cui: «In tema di lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, bisogna tenere distinto il danno da usura psico-fisica, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall’eventuale ulteriore danno biologico, che invece si concretizza in un’infermità determinata da una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali. Nella prima evenienza, il danno può essere presunto sull’an; il relativo quantum è indennizzabile mediante ricorso a maggiorazioni o compensi previsti dal contratto collettivo o individuale per altre voci retributive».

Per maggiori informazioni, contatta lo studio legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Vendita dell’immobile: la disciplina giuridica in materia di ripartizione degli oneri condominiali

2 Settembre 2016

Lo Studio Legale Avvocati Palermo, tratterà quest’oggi il tema della ripartizione degli oneri condominiali conseguente alla alienazione di un immobile.

Ebbene, ai sensi dell’art. 63 comma 4 delle disp. Att. del codice civile chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all’anno in corso e quello precedente.
Il prinProgetto casacipio dell’ambulatorietà passiva in ambito condominiale trova riscontro proprio nella citata disposizione, in virtù della quale l’acquirente di un’unità immobiliare condominiale può essere chiamato a rispondere dei debiti condominiali del suo dante causa, solidalmente con lui, ma non al suo posto, ed opera nel rapporto tra il condominio ed i soggetti che si succedono nella proprietà di una singola unità immobiliare, non anche nel rapporto tra questi ultimi.
La legge 11 dicembre 2012 n. 220 di riforma del condominio, ha introdotto il quinto comma dell’art. 63 delle disp. Att. stabilendo altresì che chi cede diritti su unità immobiliari resta obbligato solidalmente con l’avente causa per i contributi maturati fino al momento in cui è trasmessa all’amministratore copia autentica del titolo che determina il trasferimento del diritto.
Nel rapporto tra venditore e acquirente salvo che non sia diversamente convenuto tra le parti, è invece operante il principio generale della personalità delle obbligazioni, con la conseguenza che l’acquirente dell’unità immobiliare risponde soltanto delle obbligazioni condominiali sorte in epoca successiva al momento in cui, acquistandola, è divenuto condomino e se, in virtù del principio dell’ambulatorietà passiva di tali obbligazioni sia stato chiamato a rispondere delle obbligazioni condominiali sorte in epoca anteriore, questi ha diritto a rivalersi nei confronti del suo dante causa. In altri termini, come sottolineato dalla recente sentenza n.10235 del 2 maggio 2013 della Corte di Cassazione, il menzionato art. 63 disp. att. c.c. costituisce, per certi aspetti, un’applicazione specifica dell’art. 1104, comma 3, c.c. relativo alla comunione in generale, con la previsione della limitazione in base alla quale l’obbligazione del cessionario, caratterizzata dal vincolo di solidarietà con quella del condomino cedente, investe soltanto i contributi relativi all’anno in corso e a quello precedente (intendendosi il riferimento all’anno come relativo all’annualità condominiale).
Nella pratica giudiziaria si è posto il quesito di come ci si debba porre di fronte al problema riguardante il caso di vendita di un’unità immobiliare posta in un condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di manutenzione o di ristrutturazione (o altri interventi equiparabili). Ci si è chiesto, in altri termini, chi sia tenuto, tra alienante ed acquirente, a sopportare le relative spese, in mancanza di accordo fra le parti e quale sia il momento determinante da individuare per la concreta insorgenza del relativo obbligo.
Sulla questione la sentenza della Corte di Cassazione n. 24654 del 3 dicembre 2010, ha affermato che la risoluzione della questione proposta risulta dipendente dalla diversa origine della spesa al quale il singolo condomino è tenuto a contribuire, dovendosi distinguere tra spese necessarie relative alla manutenzione ordinaria e spese attinenti ad interventi comportanti innovazioni o, comunque, di straordinaria amministrazione.
Con riferimento alla prima ipotesi l’insorgenza dell’obbligazione deve essere individuata con il compimento effettivo dell’attività gestionale relativa alla manutenzione, alla conservazione, al godimento delle parti comuni dell’edificio o alla prestazione di servizi, sul presupposto che l’erogazione delle inerenti spese non richiede la preventiva approvazione dell’assemblea condominiale (ma soltanto l’approvazione in sede di consuntivo), trattandosi di esborsi dovuti a scadenze fisse e rientranti nei poteri attribuiti all’amministratore in quanto tale (ai sensi dell’art. 1130, primo comma, n. 3, c.c.), e non come esecutore delle delibere assembleari riguardanti l’approvazione del bilancio preventivo, che hanno valore meramente dichiarativo e non costitutivo.
Con riguardo alla seconda ipotesi, e cioè in caso di spese di straordinaria amministrazione, si è sostenuto che l’obbligo in capo ai singoli condomini non può essere ricollegato all’esercizio della funzione gestionale demandata all’amministratore in relazione alla somme indicate nel bilancio preventivo ma deve considerarsi quale conseguenza diretta della correlata delibera assembleare (avente valore costitutivo e, quindi, direttamente impegnativa per i condomini che l’adottano) con la quale siano disposti gli interventi di straordinaria amministrazione ovvero implicanti l’apporto di innovazioni condominiali.
Alla stregua di queste argomentazioni la sentenza in questione è approdata all’affermazione del seguente principio di diritto: “in caso di vendita di una unità immobiliare in condominio, nel quale siano stati deliberati lavori di straordinaria manutenzione, ristrutturazione o innovazioni sulle parti comuni, qualora venditore e compratore non si siano diversamente accordati in ordine alla ripartizione delle relative spese, è tenuto a sopportarne i costi chi era proprietario dell’immobile al momento della delibera assembleare che abbia disposto l’esecuzione dei detti interventi, avendo tale delibera valore costitutivo della relativa obbligazione; di conseguenza, ove le spese in questione siano state deliberate antecedentemente alla stipulazione del contratto di vendita, ne risponde il venditore, a nulla rilevando che le opere siano state, in tutto o in parte, eseguite successivamente, e l’acquirente ha diritto di rivalersi, nei confronti del medesimo, di quanto pagato al condominio per tali spese, in forza del principio di solidarietà passiva di cui all’art. 63 disp. att. c.c. “.
Tali principi sono stati accolti dalla recente sentenza n. 10235 del 2 maggio 2013, la quale ha confermato che in relazione alle spese relative agli interventi di straordinaria manutenzione, l’insorgenza dell’obbligo in capo ai singoli condomini deve considerarsi quale conseguenza diretta della correlata delibera assembleare con la quale siano disposti i predetti interventi. Tale delibera ha valore costitutivo e, quindi, direttamente impegnativa per i condomini rivestenti tale qualità all’atto della sua adozione.
La delibera giuridicamente rilevante a tal fine è solo quella con la quale tali interventi siano effettivamente approvati in via definitiva, con la previsione della commissione del relativo appalto e l’individuazione dell’inerente piano di riparto dei corrispondenti oneri, non sortendo alcuna incidenza al riguardo l’adozione di una precedente delibera assembleare meramente preparatoria od interlocutoria, che non sia propriamente impegnativa per il condominio e che non assuma, perciò, carattere vincolante e definitivo per l’approvazione dei predetti interventi.
Pertanto, qualora l’approvazione della delibera di esecuzione dei lavori di straordinaria manutenzione, efficace e definitiva per tutti i condomini, sopravvenga soltanto successivamente alla stipula della vendita, l’obbligo del pagamento delle relative quote condominiali incombe sull’acquirente, non rilevando l’esistenza di una deliberazione programmatica e preparatoria adottata anteriormente a tale stipula.

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio Legale Avvocati Palermo, chiamando lo 091.8436402 o scrivi una mail avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Licenziamento illegittimo se al periodo di prova ne segue un altro senza motivo

1 Settembre 2016

Illegittimo il licenziamento del dipendente al quale alla fine del periodo di prova venga concesso un altro periodo di “osservazione” per comprendere al meglio il lavoro da svolgere. Si tratterebbe di un doppio periodo di prova non consentito dalla legge. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la sentenza n. 16214/2016.

jobs-act-2Vicenda. La Corte si è trovata alle prese con una lavoratrice che, non avendo superato la prosecuzione del periodo di prova, era stata licenziata. Più nel dettaglio il datore aveva eccepito che per consentire un migliore approccio della lavoratrice alle problematiche relative all’area finanziaria della quale avrebbe dovuto occuparsi, la società aveva convenuto la proroga di due mesi dell’iniziale periodo di prova. La lavoratrice, in risposta a una mail aziendale con la quale veniva evidenziata la necessità di predisporre la lettera per la proroga, si offriva di farlo essa stessa e nel maggio 2013 la inviava per posta elettronica. Il documento veniva sottoscritto in duplice originale dal legale rappresentante della società e consegnato alla signora perché lo firmasse e lo conservasse. Il rapporto di lavoro così proseguiva e avendo avuto esito negativo l’esperimento, la società provvedeva a comunicare il recesso e veniva contestualmente ad apprendere che la lavoratrice non aveva sottoscritto la proroga e si era così artatamente procurato il consenso della società al solo fine di indurla a non comunicare da subito il mancato superamento del periodo di prova, nell’ingenerata apparenza di un’ulteriore prosecuzione della stessa. La Cassazione si è espressa sulla vicenda dando ragione al dipendente. Questo perché, si legge nella sentenza, la stabilizzazione del rapporto a tempo indeterminato non è derivata dalla mancata sottoscrizione della proroga del patto di prova, ma dalla stipula iniziale del contratto di lavoro e dal mancato esercizio del tempestivo recesso della società alla scadenza del primo periodo di prova ritualmente convenuto.

Il precedente. Ricorda la Cassazione che già in un precedente (sentenza n. 5404/13) era stata confermata una pronuncia di merito che aveva dichiarato la nullità del patto di prova per mancata specificazione delle mansioni che avrebbe dovuto svolgere il lavoratore con conseguente conversione in via definitiva dell’assunzione sin dal suo inizio. Da ciò era derivato che il licenziamento basato esclusivamente sul mancato periodo di prova, era stato correttamente ritenuto dal giudice di merito illegittimo per mancanza di giusta causa o giustificato motivo. Del pari nel caso concreto nel periodo di prova bis non era emerso con chiarezza quali fossero i compiti che la dipendente dovesse apprendere meglio o cosa dovesse fare per poter continuare il rapporto di lavoro. Di qui l’illegittimità del licenziamento e la bocciatura del ricorso del datore di lavoro.

Per maggiori informazioni ed approfondimenti, lo Studio Legale Avvocati Palermo rimane a disposizione. Contattaci allo 091.8436402 o scrivi una mail all’indirizzo di posta elettronica certificata avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Guida in stato di ebbrezza, sì alla doppia sospensione della patente

30 Agosto 2016

In caso di guida in stato di ebbrezza la sanzione amministrativa comminata dal prefetto della sospensione della patente non preclude, in sede penale, la possibilità per il giudice di applicare la medesima sanzione, tenendo conto del periodo di tempo già scontato. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Perugia, con la sentenza del 19 aprile 2016 n. 92, bocciando il ricorso di un automobilista e chiarendo che il tribunale può anche variare in aumento il periodo di fermo stabilito dal rappresentante di Governo.

guida-in-stato-di-ebbrezza-5-patenti-ritirate-nel-novarese-18432Il caso era quello di un uomo fermato, intorno alle quatto del pomeriggio, mentre si trovava alla guida della propria autovettura «in evidente stato di ebbrezza conseguente all’uso di sostanze alcoliche», come accertato dall’esame con etilometro che aveva riscontrato un tasso alcolemico pari a 2,27 g/l alla prima prova, effettuata alle ore 16,57, e 2,34 g/l alla seconda prova, alle ore 17,11. In primo grado il Tribunale di Spoleto lo aveva perciò dichiarato colpevole del reato di cui all’articolo 186 commi 1 e 2 lettera c) del CdS, e lo aveva condannato a 6 mesi di arresto (con pena sospesa), e 2mila euro di ammenda. Oltre alla sospensione della patente di guida per due anni con trasmissione degli atti al Prefetto.

Nel ricorso, tra l’altro, il guidatore aveva lamentato il fatto che la sanzione amministrativa accessoria gli era stata irrogata senza verificare se il Prefetto avesse disposto una analoga sanzione. La Corte territoriale nel confermare la condanna «essendo indubbio lo stato di ebbrezza, emerso dall’esame alcolimetrico», con riferimento alla mancata verifica della adozione della sanzione amministrativa accessoria da parte del Prefetto, ha osservato che: «a norma dell’articolo 186 CdS, va sempre disposta la applicazione della sanzione suddetta, che opera autonomamente rispetto a quella disposta dal Prefetto». Non solo, facendo proprio l’insegnamento della Corte di cassazione (18920/2013), la sentenza ha ribadito che «in tema di sospensione della patente di guida quale sanzione amministrativa accessoria connessa alla violazione di norme del codice della strada costituenti reato, (nella specie, guida in stato di ebbrezza), l’avvenuta applicazione in via amministrativa non preclude l’irrogazione della stessa sanzione da parte del giudice penale, salvo la detrazione del presofferto da effettuarsi in via esecutiva, né vi sono ragioni che impediscano al giudice di commisurare la sanzione in termini maggiori rispetto a quelli determinati dal Prefetto». Per cui, conclude il Collegio, la sospensione ordinata dal Tribunale «non può essere revocata e nemmeno ridotta nella sua durata, stante la rilevanza dell’illecito in esame».

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