Studio Legale Avv. Conigliaro – avvocati palermo
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Le Novità del D.L. 3 maggio 2016 n. 59: nuovo avvertimento al debitore esecutato con il pignoramento

24 Maggio 2016

Con l’articolo 4, il Dl 59/2016 torna a modificare il processo di esecuzione forzata, a meno di un anno di distanza: la precedente riforma in materia, infatti, risale al Dl 27 giugno 2015 n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015 n. 132novità

Novità nel procedimento monitorio

La quasi totalità delle novità introdotte dall’articolo 4 citato, fedelmente alla sua rubrica («Disposizioni in materia [di] espropriazione forzata»), riguarda disposizioni del terzo libro del Cpc, ma, per evitare che si perda nell’esame delle molte ed eterogenee novità, pare opportuno dare enfasi, analizzandola per prima, alla circostanza per cui oggetto di riforma è altresì l’articolo 648 del Cpc, relativo alla «esecuzione provvisoria [del decreto ingiuntivo] in pendenza di opposizione».

L’articolo 4, comma 1, lettera m), del Dl 59/2016, sostituisce nel primo comma, secondo periodo, la parola «concede» con «deve concedere».

Ai sensi dell’articolo 14 del Dl, con decorrenza dal 4 maggio 2016, pertanto, il giudice dell’opposizione «deve concedere l’esecuzione provvisoria parziale del decreto ingiuntivo opposto limitatamente alle somme non contestate», senza alcuna distinzione sulla base del momento in cui sia stato vuoi depositato il ricorso ingiuntivo, vuoi instaurato il procedimento di opposizione.

In una con quanto indicato dalla Relazione illustrativa, deve ritenersi che la modifica si limiti a esplicitare il senso proprio della disposizione, sia cioè una norma di interpretazione autentica. Ciò nonostante, deve escludersi che sia un’ipotesi di esecutività ex lege, sicché, ove erroneamente, specie anteriormente all’entrata in vigore del Dl, il giudice abbia omesso di concedere l’esecuzione provvisoria limitatamente alle somme non contestate, deve escludersi che il decreto ingiuntivo abbia efficacia esecutiva.

Un nuovo elemento dell’atto di pignoramento

L’ennesimo elemento dell’atto di pignoramento è stato inserito dall’articolo 4, comma 1, lettera a), cheha aggiunto in fine al terzo comma dell’articolo 492 del Cpc, un nuovo avvertimento da rivolgere al debitore.

In particolare il debitore esecutato deve essere avvertito che, «a norma dell’articolo 615, secondo comma, terzo periodo, l’opposizione è inammissibile se è proposta dopo che è stata disposta la vendita o l’assegnazione a norma degli articoli 530, 552 e 569, salvo che sia fondata su fatti sopravvenuti ovvero che l’opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile».

L’eventuale violazione della norma, consistente nell’omessa indicazione dell’avvertimento nell’atto di pignoramento, giusta l’articolo 156 del Cpc, deve escludersi sia idonea a provocare la nullità del pignoramento, posto che né è comminata espressamente la nullità dalla legge, né tale requisito è indispensabile al raggiungimento dello scopo proprio dell’atto di pignoramento, cioè individuare esattamente il/i bene/i su cui si concretizza l’azione esecutiva per vincolarlo/i alla soddisfazione del creditore procedente (nonché degli eventuali altri creditori concorrenti).

A ben vedere, pare doversi ritenere che la mancata indicazione del nuovo avvertimento sia un mera irregolarità, inidonea a invalidare l’atto di pignoramento: in proposito, infatti, deve rilevarsi l’assenza nell’ordinamento di una disposizione analoga a quella dell’articolo 164, comma 1, del Cpc, che espressamente stabilisce che la mancanza dell’avvertimento ex articolo 163, n. 7, del Cpc, determina la nullità dell’atto di citazione (ma sulle conseguenze derivanti dal difetto dell’avvertimento de quo, si veda altresì immediatamente oltre).

La nuova decadenza per proporre opposizione all’esecuzione

Strettamente correlata alla disposizione appena ricordata è, ovviamente, la modifica al citato articolo 615, comma 2, operata dall’articolo 4, comma 2, lettera l), e consistente nell’introduzione del terzo periodo di analogo tenore.

La norma anticipa la decadenza per la proposizione dell’opposizione all’esecuzione: quest’ultima (che, come ben noto, introduce una cosiddetta “parentesi di cognizione” all’interno del processo esecutivo), già anteriormente al Dl 59/2016, per ragioni consustanziali alla sua funzione (contestare l’andell’esecuzione forzata, cioè analiticamente, contestare:

  • il diritto di credito azionato;
  • l’esistenza o l’idoneità del titolo esecutivo;
  • la pignorabilità dei beni, può essere proposta soltanto prima della conclusione del processo esecutivo: una volta terminata l’esecuzione, infatti, non risulta più attuale l’interesse alla contestazione del suo svolgimento.

Questo regime è rimasto immutato per l’esecuzione forzata «in forma specifica» (per consegna o rilascio e per gli obblighi di fare e non fare, ex articoli 605 e seguenti del Cpc).

In forza della presente riforma, viene stabilito che, nell’espropriazione forzata, l’opposizione all’esecuzione possa ordinariamente essere proposta soltanto prima dell’emanazione del provvedimento con cui è disposta la vendita o l’assegnazione forzate.

Soltanto in due ipotesi eccezionali il debitore esecutato può proporre l’opposizioneex articolo 615 in un momento successivo (purché sempre anteriore alla conclusione del processo esecutivo):

  • ove l’opposizione «sia fondata su fatti sopravvenuti» al provvedimento con cui è disposta la vendita o l’assegnazione forzate;
  • ovvero qualora «l’opponente dimostri di non aver potuto proporla tempestivamente per causa a lui non imputabile».

Facendola rientrare vuoi nell’uno vuoi nell’altro caso, sicuramente deve ritenersi che il debitore possa proporre opposizione tardiva anche ove dimostri di non aver avuto tempestiva conoscenza dei fatti, pur verificatisi anteriormente al provvedimento con cui è disposta la vendita o l’assegnazione forzate.

Con riguardo all’ordinario termine finale di decadenza, si osservi che, sebbene sia formalmente unico e unitario, in realtà, il medesimo si colloca in momenti assai diversi nel tempo rispetto all’atto di pignoramento, a seconda sia della sequenza stabilita dalla legge per ciascun procedimento di espropriazione, sia, soprattutto, delle molteplici e possibili eventualità che si possono verificare e variamente combinare tra loro. Nella maggior parte dei casi, poi, di regola, tra l’atto di pignoramento e il provvedimento con cui è disposta la vendita o l’assegnazione forzata, possono intercorrere una o anche più udienze, la cui fissazione viene comunicata al debitore esecutato (articolo 492, comma 2, del Cpc).

Di conseguenza, specie qualora tra il pignoramento e l’adozione del provvedimento decorrano una pluralità di udienze, deve escludersi che il mancato avvertimento determini automaticamente l’impossibilità di proporre tempestivamente l’opposizione.

In base a questa considerazione, nonché al concorrente rilievo, secondo cui la decadenza opera di diritto, non potendo ammettersi che l’ammissibilità o l’inammissibilità del rimedio possano discendere, rispettivamente, dalla regolarità o dall’irregolarità dell’atto di pignoramento, può confermarsi chel’omessa indicazione del nuovo avvertimento nell’atto di pignoramento costituisca una mera irregolarità di questo, dalla quale il giudice può semplicemente trarre argomento di prova della non conoscenza in capo al debitore esecutato della necessità di rivolgersi tempestivamente a un difensore per proporre opposizione, così consentendo la proposizione tardiva dell’opposizione.

In proposito, da ultimo, vale ricordare che, comunque, se anche l’opposizione ex articolo 615 sia dichiarata inammissibile, in ogni caso, anche dopo la conclusione del processo esecutivo, il debitore che lamenti di aver ingiustamente subito un processo di espropriazione per la tutela di un diritto di credito inesistente, può agire con un ordinario processo di cognizione per la ripetizione d’indebito.

Il regime di diritto transitorio

Ai sensi dell’articolo 4, comma 3, entrambe queste novità in tema di atto di pignoramento e di termine di decadenza per la proposizione dell’opposizione all’esecuzione, si applicheranno soltanto «ai procedimenti di esecuzione forzata per espropriazione iniziati successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto», cioè i cui atti di pignoramento risulteranno compiuti dopo tale momento.

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail all’indirizzo di posta elettronica avv.conigliaro@avvpcatipalermo.com

Legge Cirinnà ed Unioni civili: tre le forme giuridiche che regolano la “famiglia”

23 Maggio 2016

La Legge “Cirinnà” (dal nome della relatrice a Palazzo Madama, la Senatrice democratica, Monica Cirillà), è legge dello Stato.

La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, fa scattare il conto alla rovescia per l’entrata in vigore, a far data dal 5 giugno 2016.

Con la legge n.76/2016, l’Italia si colloca nel perimetro degli ordinamenti che nel mondo prevedono una regolamentazione dei legami stabili eterosessuali e omosessuali, adottando però un sistema in verità quasi unico, costituito dalla compresenza nel diritto di famiglia di tre forme che organizzano dal punto di vista giuridico la vita familiare

a) il matrimonio (cui si accede con la celebrazione);

b) l’unione civile tra persone dello stesso sesso (cui si accede con la registrazione);

c) la convivenza di fatto (per cui è prevista, ma non quale registrazione obbligatoria sebbene ai fini probatori, la sola iscrizione anagrafica).

fisco-2016-01-registro-unioni-civili-bigCon la nuova legge l’iscrizione anagrafica delle convivenze (che non è una registrazione di stato civile) assolve soltanto a funzioni di attestazione e di prova dell’inizio e della durata della convivenza.

Questo automatismo della tutela nelle famiglie di fatto definisce un sistema normativo che non prevede l’accesso volontario e formale alla condizione di “convivenza di fatto”, ma che prevede, al contrario, diritti (e un dovere alimentare alla cessazione della convivenza) che nella famiglia fondata sul matrimonio o sull’unione civile sono assicurati – insieme ad altri diritti e numerosi doveri – dalla scelta di sposarsi o di registrare l’unione e che, invece, qui sono previsti per il mero fatto di convivere stabilmente.

La famiglia di fatto continua a essere caratterizzata dall’esistenza di legami affettivi di coppia e di doveri sociali (non giuridici) di reciproca assistenza morale e materiale, con la conseguenza che a quei legami e all’affidamento reciproco che essi inducono in ciascuno dei conviventi, corrisponderà una tutela giuridica, che le parti lo vogliano o no. Se due persone decidono di metter su famiglia assumono reciprocamente doveri sociali di solidarietà (articolo 2 della Costituzione) che non possono non avere come necessaria conseguenza la tutela giuridica delle situazioni che ne scaturiscono.

Sul versante della tutela dei figli questi principi già da decenni hanno trasformato la responsabilità genitoriale in un concetto che non tollera alcuna limitazione per il fatto di estrinsecarsi in una famiglia fondata sul matrimonio anziché in una famiglia di fatto.

La nuova legge si compone di un unico articolo in cui sono dislocate le disposizioni sulle unioni civili (commi 1-35) e sulle convivenze di fatto (commi 36-65) nonché norme finali di copertura finanziaria.

La prima parte (articolo 1, commi 1-35) è dedicata alle unioni civili tra persone dello stesso sesso che sono disciplinate in modo pressoché simmetrico a quanto previsto nell’ordinamento vigente per le coppie coniugate, ma con una attenzione particolare – nel rispetto della tradizione giuridica del nostro Paese e delle convinzioni religiose di buona parte della popolazione –  rivolta a evitare la mera sovrapposizione dell’unione civile al matrimonio.

La scelta del legislatore è stata quella, quindi, di non prevedere direttamente, come avviene in quasi tutti i principali Paesi occidentali, la possibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso, così evitando di sollevare prevedibili obiezioni di costituzionalità del nostro sistema (articolo 29 della Costituzione), ma al tempo stesso dando una risposta alle esortazioni della stessa Corte costituzionale per garantire alle coppie dello stesso sesso dignità giuridica non deteriore rispetto a quella che l’ordinamento garantisce ai coniugi.

Proprio per evitare questa assimilazione formale al matrimonio, il regime primario dell’unione civile non viene definito con riferimento alle norme che indicano il regime primario del matrimonio (sostanzialmente gli articoli 143 e 144 del Cc) ma attraverso l’indicazione di diritti e doveri (esclusa incomprensibilmente la fedeltà reciproca) che i partners assumono allorché costituiscono l’unione civile.

La legge esclude espressamente l’applicazione alle unioni civili di tutta la normativa vigente in tema di adozione di minori. Perciò sembra compromessa, a seguito dell’approvazione della legge, anche la possibilità dell’adozione del figlio minore del proprio partner ammessa oggi dalla giurisprudenza dei tribunali per i minorenni in applicazione dell’articolo 44 lettera d) della legge 4 maggio 1983 n. 184.

Sono garantiti naturalmente i diritti successori e alla pensione di reversibilità.

La nuova legge introduce per le unioni civili il “divorzio immediato” – cioè non preceduto dalla separazione – a cui i partners potranno accedere in via giudiziaria o con la negoziazione assistita almeno tre mesi dopo aver manifestato l’intenzione di sciogliere il loro vincolo all’ufficiale di stato civile.

La seconda parte della nuova legge (articolo 1, commi 36-65) è dedicata alla disciplina giuridica della convivenza di fatto tra persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.  Lo statuto giuridico è oggi allargato dalla nuova legge; non definito per la prima volta. I diritti nell’ambito della convivenza di fatto vengono ampliati rispetto alle garanzie già riconosciute oggi dalle leggi e dalla giurisprudenza.

Sono, “conviventi di fatto”, secondo la nuova legge, due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. Ai conviventi di cui almeno uno sia “separato” non saranno applicate, quindi, le disposizioni della nuova legge.

La convivenza di fatto “stabile”, che risponde ai requisiti indicati, determina ipso iure, l’applicazione dello statuto giuridico previsto dalla nuova legge anche alle convivenze di fatto in corso al momento dell’entrata in vigore della legge, trattandosi di una normativa di carattere sostanziale.

I conviventi di fatto mantengono l’ampia autonomia di regolamentare con accordi tra di loro aspetti della loro vita personale e dei loro rapporti patrimoniali. Regolamentazione che potrà essere esercitata nel rispetto dei limiti inderogabili fissati dalla nuova legge, e quindi non in peius, e di quelli generali di liceità e di non contrasto con l’ordine pubblico.

In questa prospettiva resta fondamentale la differenza tra “contratti di convivenza” – che sono quelli con efficacia nei confronti dei terzi cui fa riferimento la nuova legge – e “contratti tra conviventi” con efficacia limitata ai rapporti tra le parti (anche con riguardo ai rapporti successivi alla cessazione della convivenza) che appartengono da tempo alla prassi di regolamentazione dei reciproci rapporti patrimoniali nella convivenza di fatto.

Il comma 53 indica il contenuto limitato del contratto di convivenza che deve essere stipulato a pena di nullità in forma scritta «con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico». Una funzione ulteriore che il legislatore affida quindi anche all’avvocato, chiamato sempre più a funzioni di grande impegno che presuppongono anche nuovi e più adeguati livelli di formazione.

Delle ipotesi di risoluzione del contratto di convivenza previste nel comma 59 (accordo delle parti, recesso unilaterale, matrimonio o unione civile anche di uno dei due partners, morte di uno dei contraenti) il recesso unilaterale solleva numerose perplessità, soprattutto se connesso a contratti in cui i conviventi hanno adottato il regime della comunione.

Per maggiori informazioni, chiama lo 091.8436402 o scrivi una mail a avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Tutela il tuo marchio!

20 Maggio 2016

Tutela il tuo marchio!

Grande successo per lo Studio Legale Avvocati Palermo!

Con ordinanza resa ex art.700 c.p.c., il Tribunale Civile di Palermo ha accolto la domanda posta da una rinomata società palermitana che lamentava l’illegittimo utilizzo del proprio marchio ad opera di un terzo non autorizzato.

Il Giudice adito ha adottato la propria decisione, rassegnando le argomentazioni che seguono:

“Secoimagesndo l’art. 20 del codice della proprietà industriale il titolare del marchio d’impresa registrato ha diritto all’esclusivo uso del marchio e di vietare a terzi di utilizzare nell’attività economica: a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato; b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identita’ o somiglianza fra i segni e dell’identita’ o affinita’ fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che puo’ consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni; c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

Nel caso di specie si versa nell’ipotesi di cui alla lettera b) sopra richiamata. Ed invero la società resistente commercializza prodotti che recano il c.d. cuore del marchio di parte ricorrente. Sussiste poi coincidenza di prodotti….

Come recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 1267/2016) nell’affermarne la registrabilità e quindi la tutelabilità: I cosiddetti marchi “deboli” sono tali in quanto risultano concettualmente legati al prodotto per non essere andata, la fantasia che li ha concepiti, oltre il rilievo di un carattere, o di un elemento dello stesso, ovvero per l’uso di parole di comune diffusione che non sopportano di essere oggetto di un diritto esclusivo. Un marchio, tuttavia, può essere valido, benché “debole”, per l’esistenza di un pur limitato grado di capacità distintiva, e la sua “debolezza” non incide sulla sua attitudine alla registrazione, ma soltanto sull’intensità della tutela che ne deriva, atteso che sono sufficienti ad escluderne la confondibilità anche lievi modificazioni od aggiunte, in ciò differenziandosi rispetto al marchio cd. forte, per il quale sono illegittime tutte le modificazioni, pur rilevanti ed originali, che ne lascino comunque sussistere l’identità sostanziale ovvero il nucleo ideologico espressivo, che costituisce l’idea fondamentale in cui si riassume, caratterizzandola, la sua attitudine individualizzante.

La verifica quindi del rischio di confondibilità impone di considerare quelle modificazione che pur se rilevanti, lasciano comunque immutata l’identità sostanziale del marchio”.

Per ricevere consulenza, contatta lo Studio Legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o scrivi una mail all’indirizzo di posta elettronica avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Superamento periodo di comporto, l’errore sulle date rende il licenziamento illegittimo

19 Maggio 2016

Superamento periodo di comporto, l’errore sulle date rende il licenziamento illegittimo

Se il datore di lavoro nel comunicare il licenziamento per superamento del periodo di comporto, indica, pur non essendovi tenuto, anche il dettaglio dei giorni di assenza del dipendente ma sbaglia, non può poi in giudizio correggere il tiro indicando assenze pregresse non menzionate nel prospetto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 18 maggio 2016 n. 10252, chiarendo che viceversa si violerebbe il principio della «immutabilità delle ragioni addotte per il recesso», che costituisce una evidente garanzia per il lavoratore.

licenziamento-corbis-672Il caso riguardava una dipendente di un supermercato che si era vista conteggiare, ai fini del superamento del comporto, anche un periodo di otto mesi di aspettativa non retribuita. Per cui aveva impugnato il licenziamento e prima il Tribunale, poi la Corte di appello, su ricorso dell’azienda, le aveva dato ragione affermando che «non potevano considerarsi anche le assenze non indicate nel prospetto, dedotte solo in giudizio e diverse da quelle che lo stesso datore di lavoro aveva ritenuto fondamento della risoluzione del contratto».

La società però non si è data per vinta ed ha adito la Cassazione, anche perché la dipendente sarebbe stata al corrente dello sforamento del periodo, come attestato da missive da lei stessa inviate all’azienda, per cui non vi sarebbe stata alcuna lesione del principio di affidamento. La Suprema corte ha però bocciato il ricorso richiamando un precedente principio, «perfettamente applicabile al caso in esame», secondo cui «il datore di lavoro, ove abbia contestato il superamento del periodo di comporto prolungato con ricaduta, non può poi modificare l’addebito, invocando il superamento di un diverso e minore periodo di comporto legato all’ipotesi di comporto breve». Anche in tale ipotesi, infatti, prosegue la sentenza, «trova applicazione la regola dell’immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento», che opera come «fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore, il quale vedrebbe altrimenti frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilateralmente attuata e la validità dell’atto di recesso».

Né rileva che la lavoratrice fosse consapevole di avere superato il periodo di comporto perché comunque sussiste la violazione del principio anzidetto. Del resto, conclude la Corte, la comunicazione specifica delle giornate di recesso «può assolvere al ruolo di scoraggiare verifiche giudiziarie, ma per questo deve essere correttamente esercitata sulla base di una verifica puntuale e preventiva delle assenze che si ritengono pertinenti»

 

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Il verde non autorizza la svolta per chi è incanalato nella corsia sbagliata

13 Maggio 2016

Il verde non autorizza la svolta per chi è incanalato nella corsia sbagliata

In una strada a più corsie, in cui la segnaletica orizzontale prevede un diverso incanalamento a seconda della direzione da prendere, una volta postisi lungo una direttrice non si può approfittare del verde della freccia direzionale del semaforo, per operare una manovra di svolta non consentita dalla propria posizione. Il segnale luminoso infatti è riservato unicamente ai conducenti incanalati secondo la corrispondente segnaletica sull’asfalto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 27 aprile n. 8412, rigettando il ricorso di un automobilista e chiarendo che nessun rilievo può essere dato alle intenzioni del conducente.

semaforo-verdePer il ricorrente invece siccome «l’unica corsia ad avere una segnaletica orizzontale implicante obbligo di svolta era quella di sinistra», una volta scattato il verde, la Corte di Appello «avrebbe dovuto ritenere che all’automobilista che percorreva la corsia di destra era consentito di proseguire la marcia se intendeva svoltare a sinistra».

I giudici di Piazza Cavour spiegano che «le lanterne semaforiche di corsia sono apposte in presenza di strade che presentano più corsie in modo da consentire la preselezione e l’attestamento dei veicoli in prossimità di una intersezione: in tali strade le corsie da riservare a determinate manovre devono essere contrassegnate da frecce direzionali». E che la luce del semaforo (per questo definito “di corsia”) «non disciplina il passaggio dei veicoli in ragione dell’intenzione del conducente di effettuare una determinata manovra piuttosto che un’altra, quanto il transito delle vetture che abbiano seguito la canalizzazione cui si dirige il segnale luminoso».

La freccia direzionale del semaforo, dunque, «non consentiva alcuna manovra di svolta a sinistra da parte dei veicoli che non si fossero previamente immessi nella corsia che incanalava il traffico in quella direzione: e in ragione di ciò il ricorrente doveva attendere sulla linea di arresto che il segnale luminoso gli consentire di procedere diritto». Una diversa soluzione, incentrata sulla valorizzazione del proposito del conducente, spiega la Corte, «comporterebbe inevitabili inconvenienti per l’ordinato flusso veicolare nell’area dell’incrocio», con il rischio di incidenti.
Inoltre, ciò renderebbe «laboriosa e complessa la rilevazione dell’infrazione, in quanto ogni volta dovrebbe indagarsi se il conducente del veicolo che non si trova nella corsia abilitata alla svolta intendesse o meno eseguire una manovra in quella direzione».

I giudici hanno poi aggiunto che «l’assenza di un espresso divieto di svolta a sinistra sulla corsia percorsa dall’odierno istante» non è decisiva, dovendosi piuttosto dare rilievo al fatto che «la luce verde del semaforo di corsia fosse riservata ai veicoli che transitavano sulla parte di carreggiata destinata a canalizzare quei mezzi che intendevano seguire quella direzione». Neppure ha rilievo la censura riguardante il rilevamento automatico dell’infrazione in quanto il codice della strada «stabilisce che la contestazione immediata non è necessaria nell’ipotesi di attraversamento di un incrocio con il semaforo indicante la luce rossa». Ed è proprio questa la violazione in cui è incorso il conducente, conclude la Corte, «non assumendo evidentemente rilievo il fatto che altra lanterna semaforica segnalasse luce verde, posto che egli non era destinatario di tale indicazione».

 

Per maggiori informazioni in merito, contatta lo Studio Legale Avvocati Palermo al n.091.8436402 o manda una mail all’indirizzo avv.conigliaro@avvocatipalermo.com

Datore condannato per estorsione se ricatta i lavoratori di licenziamento

13 Maggio 2016

Datore condannato per estorsione se ricatta i lavoratori di licenziamento

Corte di cassazione – Sezione II penale – Sentenza 5 maggio 2016 n. 18727

Estorsione a carico del datore di lavoro che prospetti ai propri dipendenti il licenziamento in caso di mancata accettazione di condizioni capestro da lui dettate. E nel caso – precisa la Cassazione con la sentenza n. 18727/16 – erano scelte obbligate che andavano sicuramente a intaccare la dignità e il rispetto dei diritti più elementari di un lavoratore.

lavoroLe condizioni prospettate ai lavoratori – L’assunzione, infatti, avveniva solo a condizione di firmare una lettera in bianco di dimissioni, di percepire meno di quanto risultasse dalla busta paga e come se non bastasse i prestatori erano stati minacciati a più riprese di licenziamento qualora non avessero prolungato il proprio orario di lavoro. L’imputato dalla sua aveva eccepito che tra lui e i dipendenti era intercorso un accordo in base al quale gli stessi avevano deciso di accettare queste condizioni. E’ di tutta evidenza come il termine accordo previsto anche in sede civile rappresenti un incontro congruo tra due o più soggetti che poi è la formula che sta alla base del contratto ex articolo 1321 del codice civile. E se la regola ha una sua validità e importanza nel campo civile appare chiaro come debba necessariamente avere una rilevanza penale il ricatto (e quindi le condizioni lavorative proposte) dal momento che in questo caso oggetto della contesa non è un bene materiale ma in gioco c’è la dignità della persona. E sulla questione è significativo ricordare come i giudici di appello avessero ricordato come la situazione lavorativa della Sicilia, non fosse certo idilliaca anzi, ma questo non doveva lasciare la strada libera al datore di attuare una politica lavorativa minatoria.

Quando scatta l’estorsione – E’ possibile quindi, ancora una volta, riconoscere e affermare che «integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell’alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato». Nella sentenza si legge chiaramente che «anche a volere convenire che l’accettazione da parte dei lavoratori di una retribuzione più bassa rispetto a quella risultante in busta paga non bastasse di per sé sola a dare prova di una subita coercizione, non è infatti stata la forma della “libera” pattuizione ad avere trasformato, nel caso di specie, un semplice illecito civile nel reato di estorsione, bensì la modalità, resa chiara fin dall’assunzione e ribadita in costanza di rapporto, di concreta attuazione, mese dopo mese della pretesa “libera” pattuizione».

 

 

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