Superamento periodo di comporto, l’errore sulle date rende il licenziamento illegittimo

Superamento periodo di comporto, l’errore sulle date rende il licenziamento illegittimo

Se il datore di lavoro nel comunicare il licenziamento per superamento del periodo di comporto, indica, pur non essendovi tenuto, anche il dettaglio dei giorni di assenza del dipendente ma sbaglia, non può poi in giudizio correggere il tiro indicando assenze pregresse non menzionate nel prospetto. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 18 maggio 2016 n. 10252, chiarendo che viceversa si violerebbe il principio della «immutabilità delle ragioni addotte per il recesso», che costituisce una evidente garanzia per il lavoratore.

licenziamento-corbis-672Il caso riguardava una dipendente di un supermercato che si era vista conteggiare, ai fini del superamento del comporto, anche un periodo di otto mesi di aspettativa non retribuita. Per cui aveva impugnato il licenziamento e prima il Tribunale, poi la Corte di appello, su ricorso dell’azienda, le aveva dato ragione affermando che «non potevano considerarsi anche le assenze non indicate nel prospetto, dedotte solo in giudizio e diverse da quelle che lo stesso datore di lavoro aveva ritenuto fondamento della risoluzione del contratto».

La società però non si è data per vinta ed ha adito la Cassazione, anche perché la dipendente sarebbe stata al corrente dello sforamento del periodo, come attestato da missive da lei stessa inviate all’azienda, per cui non vi sarebbe stata alcuna lesione del principio di affidamento. La Suprema corte ha però bocciato il ricorso richiamando un precedente principio, «perfettamente applicabile al caso in esame», secondo cui «il datore di lavoro, ove abbia contestato il superamento del periodo di comporto prolungato con ricaduta, non può poi modificare l’addebito, invocando il superamento di un diverso e minore periodo di comporto legato all’ipotesi di comporto breve». Anche in tale ipotesi, infatti, prosegue la sentenza, «trova applicazione la regola dell’immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento», che opera come «fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore, il quale vedrebbe altrimenti frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilateralmente attuata e la validità dell’atto di recesso».

Né rileva che la lavoratrice fosse consapevole di avere superato il periodo di comporto perché comunque sussiste la violazione del principio anzidetto. Del resto, conclude la Corte, la comunicazione specifica delle giornate di recesso «può assolvere al ruolo di scoraggiare verifiche giudiziarie, ma per questo deve essere correttamente esercitata sulla base di una verifica puntuale e preventiva delle assenze che si ritengono pertinenti»

 

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