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“Privacy” e Diritto d’accesso “civico”: esigenze e tutele a confronto

30 Marzo 2021

L’esercizio del diritto di accesso – in ambito privacy – può trovare dei limiti e delle eccezioni come, ad esempio, nello svolgimento di indagini difensive o nell’esercizio di un diritto in sede giudiziaria.

Il Garante per la protezione dei dati personali recentemente ha diffuso delle sintetiche guide operative in formato di “schede” per spiegare ai cittadini, con linguaggio semplice e chiaro, non solo il diritto di accesso dell’interessato disciplinato dalla normativa privacy, ma anche gli istituti dell’accesso civico (semplice e generalizzato) previsti dalla normativa in materia di trasparenza amministrativa, nonché lo strumento dell’accesso ai documenti amministrativi ai sensi della Legge generale sul procedimento amministrativo.

Trasparenza amministrativa: accesso civico semplice e generalizzato

Per descrivere gli istituti giuridici introdotti dal Legislatore ai fini della valorizzazione del principio di trasparenza nell’ambito dei processi della Pubblica amministrazione, occorre innanzitutto partire dalla definizione del concetto stesso di “trasparenza” contenuto nell’art. 1, comma 1, D.Lgs. 33/2013 (cd. “Testo unico sulla trasparenza”). La trasparenza va intesa come “accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.

Il Legislatore parla di “accessibilità totale” ed è evidente come la scelta, a livello terminologico, di utilizzare tale aggettivo è coerente con le finalità dello strumento giuridico che vuole un’apertura della P.A. a 360 gradi, nella consueta immagine della Pubblica amministrazione che deve “aprirsi all’esterno” come se fosse una “casa di vetro”.

La trasparenza concorre ad attuare principi di rilevanza costituzionale, partendo dal principio democratico arrivando ai principi di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche. La trasparenza, inoltre, contribuisce ad integrare il diritto ad una buona amministrazione e la realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino. In generale, il Legislatore per dare concreta efficacia alla trasparenza amministrativa ha introdotto due istituti:
a) la pubblicazione obbligatoria nei siti istituzionali delle Amministrazioni (nella sezione “Amministrazione trasparente”) di determinati atti, informazioni e dati concernenti l’organizzazione della P.A specificatamente previsti dal T.U. sulla trasparenza;
b) l’accesso civico, nella sua doppia veste di accesso civico semplice e accesso civico generalizzato.

In particolare, l’accesso civico semplice, disciplinato dall’art. 5, comma 1, D.Lgs. 33/2013 fa riferimento al diritto di chiunque di richiedere la pubblicazione di dati, documenti e info che la P.A. ha l’obbligo di pubblicare, nel caso in cui sia stata omessa la loro pubblicazione.

Mentre, l’accesso civico generalizzato (cd. FOIA, Freedom Of Information Act – introdotto dal D.Lgs. 97/2016, che ha modificato T.U. sulla trasparenza) attribuisce il diritto a chiunque di accedere ai dati e documenti detenuti dalle P.A. “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria.

È chiaro che il FOIA è stato introdotto allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e al fine di promuovere la partecipazione dei cittadini al dibattito pubblico.

Tale diritto va esercitato nel rispetto dei limiti ex art. 5-bis, D.Lgs. 33/2013: tali limiti sono posti da un lato per la tutela di determinati interessi pubblici (come la sicurezza nazionale, la difesa e le questioni miliari), e dall’altro lato a presidio di interessi privati (dei soggetti controinteressati) giuridicamente rilevanti. Nello specifico, un’istanza di accesso civico generalizzato può essere respinta dalla P.A. quando il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno dei seguenti interessi privati che fanno riferimento a tre aree:
1) la protezione dei dati personali in conformità alla disciplina prevista in tale ambito;
2) la libertà e segretezza della corrispondenza;
3) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, compresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali.

Sostanzialmente l’accesso civico generalizzato si può esercitare all’interno di determinati “confini”, limiti posti a tutela di interessi qualificati e giuridicamente rilavanti, comportando che la regola generale dell’accessibilità sia temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati.

L’esercizio del diritto di accesso civico, sia nella forma di accesso civico semplice che nella forma di accesso civico generalizzato, non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, infatti il Legislatore specifica che esso è esercitabile da “chiunque”. Inoltre, l’istanza di accesso civico (sia semplice che generalizzato) deve identificare i dati, le informazioni o i documenti richiesti e non richiede motivazione.

Entrambe le tipologie di accesso civico qui descritte (sia semplice che generalizzato) si differenziano dell’istituto del diritto di accesso ai documenti amministrativi disciplinato dal Capo V, L. 241/1990 (cd. “Legge generale sul procedimento amministrativo”), in quanto quest’ultimo richiede che il soggetto richiedente sia in possesso di un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente collegata al documento di cui si richiede l’accesso. Inoltre, la richiesta di accesso ai documenti amministrativi (che si concretizza nel diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi), va motivata, a differenza delle due tipologie di accesso civico in commento che, invece, come sopra evidenziato, non necessitano di motivazione per essere esercitate. Un elemento che accomuna il diritto di accesso civico e il diritto di accesso ai documenti amministrativi è rappresentato dalla gratuità del servizio, salvo l’eventuale rimborso del costo di riproduzione e delle disposizioni in materia di bollo e diritto di ricerca e visura.

Come detto in premessa, il Garante privacy con due sintetiche e chiare schede esplicative spiega le modalità per il concreto esercizio delle tipologie di diritto di accesso fin qui descritte. Con una terza e distinta scheda operativa ha, invece, delineato la fisionomia di un’altra tipologia di accesso, che fuoriesce dall’ambito del diritto amministrativo descritto esorbitando dal campo di azione delle P.A., perché rientra nell’ambito della normativa privacy (si veda il paragrafo seguente).

Trattamento dei dati personali e normativa privacy: diritto di accesso dell’interessato

Ai sensi dell’art. 15, GDPR (General Data Protection Regolation – Regolamento sulla protezione dei dati dell’Unione Europea 2016/679), l’interessato può esercitare il cd. “diritto di accesso”, vale a dire la facoltà di ottenere dal titolare del trattamento la conferma che sia o meno in corso un trattamento di dati personali che lo riguardano e, in caso positivo, può averne l’accesso e riceverne copia. Si ricorda che nel “linguaggio privacy” l’ “interessato” è la persona fisica cui si riferiscono i dati personali, mentre il “titolare del trattamento” rappresenta la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali.

In particolare, il titolare del trattamento è tenuto a fornire una copia dei dati personali oggetto di trattamento, in modo gratuito relativamente ad una copia; nel caso di ulteriori copie richieste dall’interessato, il titolare del trattamento può addebitare un contributo spese ragionevole basato sui costi amministrativi.

In generale, in virtù dell’art. 12, par. 1, GDPR, le informative (ex artt. 13 e 14) e le comunicazioni (tra le quali rientrano i riscontri al diritto di accesso) all’interessato devono essere date in forma scritta (oralmente solo se richiesto dall’interessato), in forma concisa, trasparente, intellegibile e con un linguaggio semplice e chiaro.

Inoltre, in base all’art. 15, GDPR, dedicato specificatamente al diritto di accesso, l’interessato ha accesso anche alle informazioni che riguardano:
– le finalità del trattamento;
– le categorie di dati personali in questione;
– i destinatari o le categorie di destinatari a cui i dati personali sono stati o saranno comunicati, in particolare se destinatari di Paesi terzi o organizzazioni internazionali;
– quando possibile, il periodo di conservazione dei dati personali previsto oppure, se non è possibile, i criteri utilizzati per determinare tale periodo;
– l’esistenza del diritto dell’interessato di chiedere al titolare del trattamento la rettifica o la cancellazione dei dati personali o la limitazione del trattamento dei dati personali che lo riguardano o di opporsi al loro trattamento;
– il diritto di proporre reclamo a un’autorità di controllo;
– qualora i dati non siano raccolti presso l’interessato, tutte le informazioni disponibili sulla loro origine;
– l’esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione di cui all’art. 22, paragrafi 1 e 4, e, almeno in tali casi, informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato.
Come anticipato, il Garante privacy con una specifica scheda informativa e divulgativa fornisce a tutti gli interessati le informazioni basilari per l’esercizio di tale diritto di accesso.

Rapportando tale tipologia di accesso ai tipi di accesso descritti nel paragrafo precedente e inseriti nell’alveo del diritto amministrativo, occorre dire che anche l’esercizio del diritto di accesso in ambito privacy può trovare dei limiti e delle eccezioni. In particolare, il diritto di accesso dell’interessato non deve ledere i diritti e le libertà altrui o ad esempio causare un pregiudizio effettivo e concreto allo svolgimento di indagini difensive o all’esercizio di un diritto in sede giudiziaria (art. 15, GDPR e artt. 2-undecies e 2-duodecies, D.Lgs. 196/2003 – Codice in materia di protezione dei dati personali).

Relativamente ai costi, anche in questo ambito la richiesta di accesso non implica costi, tuttavia se le richieste dell’interessato sono manifestamente infondate o eccessive, in particolare per il loro carattere ripetitivo, il titolare del trattamento può addebitare un contributo spese ragionevole, tenendo conto dei costi amministrativi sostenuti per fornire le informazioni (art. 12, par. 5, GDPR).

Infine, analogamente alle richieste di accesso civico (sia semplice che generalizzato), anche per l’esercizio del diritto di accesso in ambito privacy la motivazione non rappresenta un elemento essenziale della richiesta.

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio Legale Avvocato Valentina Conigliaro alla mail info@avvocatovalentinaconigliaro.it o al n.3755473095

Donazione al figlio per l’acquisto di un immobile: restituzione esclusa!

25 Marzo 2021

Quando il genitore eroga una somma di denaro per l’acquisto di un immobile in capo al figlio, se non risulta diversamente da una scrittura privata o da altri accordi di cui è possibile dare dimostrazione, si è in presenza non di un prestito o di un mutuo, ma di una donazione indiretta. In tal caso, il donante fornisce il denaro quale mezzo per l’acquisto del bene, che costituisce il fine della donazione. Non è, pertanto, possibile da parte del genitore ottenere la restituzione di quanto donato. Questo è quanto afferma il Tribunale di Reggio Calabria nella sentenza n. 754/2020.

La vicenda
La controversia prende le mosse dalla domanda giudiziale con la quale una coppia chiedeva la restituzione di 250 mila euro, corrisposti alla figlia e al genero per l’acquisto di un immobile del valore complessivo di 410 mila euro. L’ingente somma era stata versata direttamente al venditore dell’immobile con un bonifico bancario e con un assegno circolare, al fine di evitare che i convenuti fossero costretti a sottoscrivere un più oneroso mutuo.
Si costituiva in giudizio soltanto il genero, nel frattempo separatosi giudizialmente dalla figlia degli attori, il quale riteneva che la suddetta dazione fosse qualificabile come un atto di liberalità, avvenuto in un contesto familiare, e non come un prestito con obbligo di restituzione. Ad ogni modo, beneficiaria della dazione doveva considerarsi la figlia degli attori, posto che i 160 mila euro restanti per l’acquisto della casa erano stati versati di tasca sua. Inoltre, perlomeno dubbie erano le tempistiche della richiesta di restituzione: subito dopo la separazione dei coniugi e subito prima dello spirare del termine decennale di prescrizione per la restituzione.

La donazione indiretta
Tali rilievi vengono valorizzati dal Tribunale, il quale respinge la domanda degli ex suoceri. Costoro, infatti, non hanno supportato sul piano probatorio la ricostruzione fattuale della vicenda, non essendo emerso in sede istruttoria che gli stessi avessero prestato la somma ai convenuti. Non vi è traccia, infatti, di una scrittura privata – «come è solito avvenire nella prassi anche tra parenti» – che provi i termini di tale accordo, i tempi e le modalità di restituzione.
Ebbene, per il giudice nella vicenda «si individuano gli elementi di una c.d. donazione indiretta, ossia di un atto di liberalità non donativo in cui il donante raggiunge lo scopo di arricchire un’altra persona servendosi di atti che hanno una causa diversa da quella del contratto di donazione». Essa si identifica «in ogni negozio che, pur non avendo la forma della donazione, sia mosso da fine di liberalità e abbia lo scopo e l’effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario». Anzi, sottolinea il Tribunale, il caso di specie configura una delle ipotesi più diffuse di donazione indiretta, ovvero quella in cui «il genitore corrisponde direttamente al venditore il prezzo per un immobile che viene acquistato e intestato al figlio o mette a disposizione del figlio la provvista di denaro per l’acquisto dell’immobile». E ciò vale anche «quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo della relativa compravendita dovuto dal donatario, laddove sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme».
Pertanto, conclude il Tribunale, nella fattispecie si riscontra lo schema tipico della donazione indiretta, anche avuto riguardo la qualità dei soggetti protagonisti della vicenda, sicché non può essere domandata la restituzione della somma in tal modo donata.

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio Legale Avvocato Valentina Conigliaro alla mail info@avvocatovalentinaconigliaro.it o al n.3755473095

 

Mutuo, Mora e Usura: considerazioni alla luce della giurisprudenza a Sezioni Unite della Cassazione

25 Marzo 2021

Con la sentenza n 19597 /2020, la Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha espresso il principio in base al quale l’art 1815 c.c. è applicabile anche agli interessi moratori a condizione che lo stesso non vada interpretato nel senso da non dover ritenere per non dovuti gli interessi moratori, in quanto il precetto di cui al comma 2 deve ritenersi riferito esclusivamente alle ipotesi in cui tali interessi superino la soglia e quindi solo limitatamente alla parte eccedente.

La Suprema Corte ha, altresì, precisato che in ipotesi di interessi moratori è applicabile la disciplina di cui all’art 1224 c.c. comma 1 dovendosi corrispondere gli interessi moratori contrattualmente pattuiti.

La S.C. è giunta a formulare il principio, di cui sopra, mediante una attenta disamina degli orientamenti giurisprudenziali formatisi sul tema che possono distinguersi in due categorie che portano a tesi restrittive o estensive a seconda se ritengono gli interessi di mora sottratti alla disciplina antiusura ovvero se a loro è applicabile.

Al fine di meglio rappresentare quanto in commento, si evidenzia come le due tesi, contrapposte sul tema, valuta(va)no in differente modo le problematiche legate alla interpretazione della normativa in tema di usura ovvero la funzione stessa e la natura degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, la ratio sottostante la normativa vigente in tema di antiusura e la irrilevanza degli interessi di mora nel tasso di soglia fissato dai D.M. ( cfr L 24/2001 interpretativa della L 208/2996 e valore dei lavori preparatori alla L. 24/2001 (di interpretazione autentica della L. 108/1996).

A termine delle proprie considerazioni e valutazioni, le S.U., non aderendo a nessuna delle tesi sopra indicate, hanno affermato il principio in base alla quale la disciplina antiusura è applicabile anche agli interessi moratori al fine di poter assolvere alle finalità di ordine pubblico perseguite dalla normativa antiusura e al fine di prestare maggiore tutela verso il soggetto finanziato. In tale ottica, le SU hanno espressamente formulato il principio in base al quale la disciplina usuraria e la relativa disciplina repressiva, non possono ritenersi estranei all’interesse moratorio.

Seguendo nella sua argomentazione logica la SC a SU, inquadrando il patto sugli interessi moratori nell’ambito della clausola penale , disciplinata dall’art 2382 cc ( per sua natura risarcitoria) predeterminata dalle parti, ha ritenuto non sufficiente una riduzione ex art 1384, ma ha ritenuto dover ricondurre ad un abbattimento degli interessi moratori riportandoli nei limiti degli interessi di soglia; con simile argomentazione ha ritenuto di dover dare rispetto in modo uniforme sul territorio nazionale ai limiti di soglia e nel contempo, nel rispetto del concetto di interesse moratorio, non ha ritenuto di dover ricondurre il tasso da applicare in ragione del minor tasso degli interessi corrispettivi

Di conseguenza, la Suprema Corte di cassazione a SU ha espresso il principio in base al quale non vi è debenza degli interessi moratori, ex art 1815, secondo comma, c.c., solo nella parte in cui gli stessi valicano il tasso di soglia ; ex adverso, laddove l’interesse corrispettivo è lecito mentre il computo degli interessi moratori supera la soglia, sono da ritenere solo questi ultimi illeciti.

La sentenza oggi in commento, come era facile preventivare, ha suscitato gran rumore ed innumerevoli sono state le sentenze di merito che alla stessa si sono uniformate. Fra le tante, riteniamo opportuno prendere in esame la Sentenza N 16982/2020 emessa dal Tribunale di Roma in quanto nella sua parte motiva prende in esame le varie fattispecie “patologiche” che possono presentarsi nell’ambito ( recte : nello svolgimento ) del contratto di mutuo .

Il giudizio, che ha dato ingresso alla sentenza in commento, è stato introdotto con domanda tendente ad ottenere la declaratoria di nullità di un contratto di mutuo in quanto ritenuto affetto da vizi conseguenti alla presenza di interessi usurari ed anatocistici nonché per la indeterminatezza del tasso di interesse ultra legale a fronte dei quali si chiedeva, in via sostitutiva, l’applicazione degli interessi ax art 117 TUB; si chiedeva, altresì, previa rideterminazione dei rapporti contrattuali, la ripetizione delle somme versate in eccedenza al dovuto.

Il Tribunale ha esaminato analiticamente ogni punto della domanda prendendo le mosse dal tasso di mora ed usura; a tal fine, evidenziando la giurisprudenza di legittimità esistente sul punto, ivi compresa la sentenza oggi in commento, ha condiviso il principio in base al quale il tasso di mora non è sottratto al divieto di usura evidenziando che i criteri atti alla verifica del superamento del tasso di soglia sono riconducibili al TEGM incrementato della maggiorazione media degli interessi moratori moltiplicato per il coefficiente in aumento e con l’aggiunta dei punti percentuali previsti, quale ulteriore margine di tolleranza, alla stregua di quanto disposto dall’art 2 L 108/21996. Nei fatti, operando in tal modo, si è dato corpo all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il parametro da seguire nel determinare il tasso di soglia deve tener conto della funzione precipua degli stessi e della maggiorazione tesa a liquidare anticipatamente l’eventuale danno di guisa da compensare in via anticipata l’intermediario dal rischio della restituzione.

Con la sentenza in parola veniva esclusa la possibilità di quantificare il tasso effettivo (da porre a confronto con quello di soglia) sommando il tasso corrispettivo a quello di mora: tale affermazione anche sul presupposto che gli interessi moratori non possono essere sommati a quelli corrispettivi rappresentando una loro sostituzione in caso di inadempimento.

Ancora, la sentenza del Tribunale ha inteso precisare , con espresso riferimento a clausole contrattuali che prevedono l’applicazione del tasso di mora sull’importo delle rate scadute ( comprensive di sorta e interessi), la loro illegittimità in quanto l’interesse moratorio, in ipotesi di mancato pagamento delle rate, è computato esclusivamente sulla rata; operazione espressamente prevista e quindi resa legittima dall’art delibera CICR 9.2.2000 applicabile ai finanziamenti rimborsabili in epoca successiva al luglio 2000.

Il Tribunale, dopo aver chiarito che non può effettuarsi il cumulo tra interessi corrispettivi e moratori, in quanto relativi a fasi diverse del rapporto e che gli stessi non sono idonei alla rilevazione del TEG contrattuale, ha provveduto a dichiarare che anatocismo ed usura sono fenomeni aventi autonomia legale; a tal fine ha precisato che l’incremento del TEG , in virtù di effetti anatocistici, determinerebbe una asimmetria tra il criterio di rilievo del tasso di soglia e quello di determinazione del TEG . A tal fine, con espresso riferimento al principio indicato dalla Corte di Cass a S.U. con la sentenza n 16303 del 2018, si deve dedurre che tale asimmetria “…contrasterebbe palesemente sia con il sistema dell’usura presunta, come delineata dalla l 108/96, la quale definisce alla stessa maniera il tasso di soglia (usando le medesime parole … commissioni,.. remunerazioni a qualsiasi titolo,…. spese, escluse quelle per imposte e tasse), che in virtù dell’art 644 3 comma c.p. , è necessario porre a confronto con il TEGM, frutto di appositi decreti ministeriali.

Nei fatti, è stata dichiarata la identicità degli elementi rilevanti in entrambe le Nei fatti, è stata dichiarata la identicità degli elementi rilevanti in entrambe le ipotesi. Con ciò è stata confutata la prospettazione in base alla quale il tasso di mora dovrebbe essere rideterminato in base alla incidenza delle spese ed onori che concorrono a determinare il TEG; tanto sul presupposto che tali oneri e spese già sono oggetto di valutazione ai fini del TEG e che le stese sono, comunque, estranee alla fase patologica del rapporto nel cui ambito si appalesa l’inadempimento del mutuatario.

Dopo questa disamina, il Tribunale affronta l’assolvimento dell’onere probatorio, chiarendo che l’onere probatorio in relazione alla esistenza della c.d. usura soggettiva grava sull’attore che, oltre alla verifica numerica degli interessi, è tenuto a provare che gli interessi “avuto riguardo alle concrete modalità del fatto ed al tasso medio praticato per operazioni similari, risultino…. Sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o altra utilità…quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria “.

Il giudice di merito ha ribadito che spetta all’attore provare, con le modalità e tempi previsti dal nostro ordinamento processuale, ogni elemento idoneo a poter individuare il carattere usurario del mutuo ovvero, della nullità della clausola che ha determinato il tasso oggetto del contendere. Più in dettaglio, il Giudice ha ribadito ( cose forse del tutto superflue agli operatori del diritto) a monte della rilevabilità di ufficio delle clausole che prevedono l’applicazione di tassi usurari, la necessità della tempestiva allegazione degli elementi di fatto da cui avrebbe origine il giudizio di nullità a nulla rilevando eventuali e successivi fatti nuovi, in quanto determinerebbero diversi temi di indagine diversi da quelli cristallizzati nei termini processualmente predeterminati; a tal fine è stata allegata la copiosa e conforme giurisprudenza di legittimità esistente in merito. Quindi, a tal fine, onde rispettare l’assolvimento dell’onere probatorio, l’attore avrebbe dovuto provare l’esistenza di entrambi presupposti ovvero lo stato di necessità con l’applicazione da parte della banca di interessi diversi da quelli praticati sul mercato.

In ultimo, a riprova della completezza della sentenza in commento, il Tribunale di Roma ha affrontato il tema della commissione di estinzione anticipata, precisando che la stessa non può rientrare nl computo del tasso di soglia in quanto rientrante nell’ambito dei diritti potestativi in capo al mutuatario che prescinde da eventuali inadempimenti. Difatti, il recesso non integra alcuna ipotesi di inadempimento in quanto altro non è che il libero esercizio di un proprio diritto. Di conseguenza, il costo connesso al recesso anticipato non può rientrare fra i costi collegati alla concessione del credito, potendosi inquadrare tra le ipotesi di multa penitenziale di cui all’art 1373 cc (recte : la remunerazione che il mutuatario si obbliga a riconoscere in favore dell’istituto mutuante nelle ipotesi di esercizio del diritto/potere di recesso). Vengono, altresì, analizzate le ulteriori domande dell’attore, relative alla omessa indicazione dell’ISC ed alla violazione della disciplina antitrust in tema di euribor.

Per quanto attiene la omessa indicazione dell’ISC , ritiene la stessa non sanzionabile con la nullità della clausola relativa al tasso, in quanto il requisito della indeterminatezza del tasso ultra legale va verificato con riferimento a tale clausola e non già alla indicazione dell’ISC che, invece, ha solo finalità indicativa

Per quanto attiene l’ultima doglianza, fondata sull’assunto che sono le banche stesse a determinare il tasso EURIBOR, sulla base di tassi applicati dalle stesse in spregio alle regole di vigenti in tema di concorrenza, il Tribunale ha precisato che l’EURIBOR è un tasso di riferimento che viene determinato con cadenza giornaliera ed indica il tasso medio delle transazioni in euro tra le principali banche europee e viene individuato dalla EBF ( European Banking Federation ) nella media dei tassi di deposito interbancario praticati da un insieme di 50 banche, individuate fra quelle con maggiore volume di affari ; da tale computo vengono esclude le operazioni a tasso anomalo . Ha precisato il Tribunale, a conforto di quanto assunto, che l’Euribor è computabile solo se partecipano alla rilevazione dodici istituti di credito. In ultimo, sempre a tal proposito, ha specificato che, sebbene la fissazione del tasso giornaliero sia affidata ad una associazione di banche, questo avviene sulla base di dati assunti come oggettivi e, quindi, estranei al rapporto contrattuale per cui da ritenere eterodeterminati per entrambe le parti contrattuali.

Di conseguenza, la assunta manipolazione dell’Euribor, operata in virtù di accordo “di cartello” fra le maggiori banche europee non avrebbe alcuna influenza sia sulla determinatezza del dato né sulla validità della clausola, in quanto l’indice euribor viene indicato quale dato oggettivo, estraneo all’accordo e, quindi, sottratto la sfera delle parti
Ad ulteriore completezza chiarisce che l’indice euribor e, quindi, la indicizzazione del saggio di interesse corrispettivo dei mutui a tasso variabile è più che altro un criterio di collegamento del tasso all’andamento dei mercati finanziari.

In ultimo ha affrontato il tema circa la ammissibilità della consulenza tecnica d’ufficio precisando che, attesa l’assenza dei presupposti in punto di fatto ovvero di mancato puntuale rispetto dei principi vertenti in tema di onere probatorio, deve rigettarsi tale richiesta in quanto la CTU di certo non può assurgere ad atto idoneo a sanare e/o integrare eventuali deficienze istruttorie, non costituendo tale istituto mezzo istruttorio.

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio Legale Avvocato Valentina Conigliaro alla mail info@avvocatovalentinaconigliaro.it o al n.3755473095

 

Risoluzione del contratto: non è giustificabile l’assegnazione di un termine inferiore ai 15 giorni.

25 Maggio 2020

Corte di cassazione – Sezione I civile – Sentenza 14 maggio 2020 n. 8943

In tema di risoluzione del contratto e in particolare con riguardo alla diffida ad adempiere non è giustificabile l’assegnazione di un termine minore di 15 giorni, per i precedenti solleciti rivolti al debitore. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 8943/2020.

Fondamenti della decisione. Alla base della decisione una vicenda in cui una storica società milanese il 1° settembre 1998 aveva conferito a una Srl l’incarico di assistere in esclusiva sia per l’Italia che per l’estero il proprio management nell’attività di licensing del marchio della società. In linea di principio l’attività era quella di tutelare e incentivare le potenzialità del marchio. Il tutto è proceduto bene fino al 2007. Anno in cui il rapporto tra le parti si è incrinato a causa di dissensi nella gestione del contratto con la società spagnola licenziataria nel settore delle calzature. Seguiva la sentenza del 6 maggio 2014 del Tribunale di Milano che condannava la società milanese al pagamento di 421.674 euro oltre interessi per royalties. Nel rapporto tra le due società, l’azienda milanese avrebbe commesso l’errore di non rispettare il termine di 15 giorni previsto dall’articolo 1454, comma 2, del Cc, quale termine minimo da assegnare per conseguire l’adempimento di una precedente obbligazione.

Il principio di diritto. Sulla base di questa ricostruzione la Cassazione ha espresso un ulteriore principio di diritto secondo cui “in tema di diffida ad adempiere un termine inferiore ai 15 giorni trova fondamento solo in presenza delle condizioni di cui all’articolo 1454, comma 2 Cc,…la diffida illegittimamente intimata per un termine inferiore ai 15 giorni è di per sé idonea alla produzione di estinzione nei riguardi del rapporto costituito tra le parti”.

Per maggiori informazioni, contatta lo Studio Legale Avvocato Valentina Conigliaro alla mail info@avvocatovalentinaconigliaro.it o al n.3755473095

Nessuna sanzione penale per l’ingiuria in video chat

11 Maggio 2020

Corte di cassazione – Sentenza 31 marzo 2020 n. 10905

Non incorre nel rischio di una sanzione penale chi insulta l’interlocutore in una video chat, anche se alla presenza di più persone. Non scatta infatti il reato di diffamazione, dal momento che la persona offesa è presente, ma si rientra nella fattispecie dell’ingiuria che però è stata depenalizzata dalla legge n. 7 del 2016. La Corte di cassazione, sentenza n. 10905 di oggi, ha così accolto il ricorso di un uomo che era stato condannato al pagamento di 600 euro di multa.

Secondo la Corte di appello di Milano, che a sua volta aveva confermato la condanna del Tribunale di Monza, invece, l’imputato era colpevole di diffamazione per aver offeso la vittima tramite una video chat accessibile “ad un numero indeterminato di persone”.

Contro questa decisione il ricorrente ha dedotto violazione di legge “per aver ritenuto sussistente il reato di diffamazione, anziché la fattispecie di ingiuria”. Gli insulti infatti erano stati rivolti attraverso la piattaforma “Google Hangouts, diversa dalle altre piattaforme chat digitali che sono ‘leggibili’ anche da più persone”. Inoltre il destinatario dei messaggi “era solo la persona offesa e la video chat aveva carattere temporaneo”, né rilevava in alcun modo che all’ascolto vi fossero anche altri utenti.

Per la Cassazione il ricorso è fondato. Secondo la Quinta sezione penale infatti è incontroverso che le espressioni offensive sona state pronunciate dall’imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, ed alla presenza di altre persone ‘invitate’ nella chat vocale; tuttavia, “l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione – rammenta la Corte – è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore”.

Ne consegue che il fatto deve essere qualificato come ingiuria “aggravata dalla presenza di più persone” (ai sensi dell’art. 594, c.p.), reato che, però, come detto, è stato depenalizzato dall’art. 1, co. 1, lett. c), della legge 15 gennaio 2016 n. 7. La sentenza impugnata è stata quindi annullata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

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Danni da emotrasfusione, agli eredi risarcimento parametrato agli anni vissuti

7 Maggio 2020

Corte di cassazione – Sentenza 6 maggio 2020 n. 8532

Nel caso di persona già defunta al momento del giudizio, il risarcimento agli eredi, da parte del Ministero della Salute, per il danno da contagio da epatite HCV in conseguenza di emotrasfusione, va liquidato secondo le tabelle milanesi e non applicando un criterio “equitativo puro”. L’intervenuto decesso della parte tuttavia comporta che “la valutazione probabilistica connessa all’ipotetica durata della vita del soggetto danneggiato vada sostituita con quella del concreto danno effettivamente prodottosi”. Cosicché l’ammontare del danno biologico che gli eredi richiedono iure successionis deve essere calcolato “non con riferimento alla durata probabile della vita della vittima, ma alla sua durata effettiva (da ultimo Cass, n. 4551 de 2019)”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 8532 di oggi, accogliendo parzialmente il ricorso degli eredi.

La Corte di Appello di Napoli, invece, considerato che il decesso era avvenuto all’età di 84 anni, dunque oltre l’aspettativa di vita, aveva ritenuto che la liquidazione dovesse avvenire con il criterio “equitativo puro” e l’aveva fissata in 30mila euro. Siccome però la vittima aveva goduto di un indennizzo di 88mila euro ex lege 210/92, e tale somma doveva essere detratta dal risarcimento, “il saldo era negativo”.

Proposto ricorso la Terza sezione, richiamando altre pronunce, l’ha parzialmente accolto stabilendo che in sede di rinvio “il danno tabellarmente determinato dovrà dal giudice di merito essere proporzionalmente ridotto avuto riguardo al tempo di effettiva sopravvivenza del danneggiato”. In particolare, il giudice di merito dovrà adottare «il criterio della proporzione, secondo cui il risarcimento che si sarebbe liquidato a persona vivente sta al numero di anni che questi aveva ancora da vivere secondo le statistiche di mortalità, come il risarcimento da liquidare a persona già defunta sta al numero di anni da questa effettivamente vissuti tra l’infortunio e la morte» (Cass. n. 13331 del 2015).

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