Divorzio, no all’aumento dell’assegno se l’ex lascia il lavoro

L’ex coniuge che si dimette dal lavoro, sulla base di una scelta di vita del tutto personale, non può poi pretendere la maggiorazione dell’assegno divorzile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 3015 del 7 febbraio 2018, aggiungendo che dopo la cosiddetta sentenza Grilli (la n. 11504 dello scorso anno), il tenore di vita matrimoniale non è più un parametro di riferimento. L’unico discrimine rimasto infatti è il raggiungimento o meno della autosufficienza economica.

La Corte di appello di Roma aveva già bocciato la richiesta della ex moglie di portare l’assegno da 800 a 3.800 euro dopo aver considerato che la donna percepiva comunque un reddito da locazione. Il ragionamento è stato condiviso dalla Cassazione che ricorda come la Corte di merito avesse confermato l’importo dell’assegno determinato dal giudice di primo grado, tenendo conto della breve durata della convivenza matrimoniale (circa sei anni) e delle condizioni personali ed economiche della ricorrente «abilitata all’esercizio della professione forense e proprietaria di un terreno e di un appartamento da cui percepiva un canone di locazione». Inoltre, le «libere scelte di vita» della donna consistenti nella rinuncia «a una carriera promettente» e alla «accettazione di un posto di lavoro part-time», da cui poi si era dimessa all’età di quarantasei anni, «senza che vi fosse prova di alcuna costrizione né di tentativi di riprendere l’attività lavorativa», non potevano riverberarsi sull’ex marito.

Ai fini della determinazione dell’assegno, il criterio del «contributo personale ed economico alla famiglia», prosegue la decisione, deve essere provato dal richiedente. Ma va considerato che «la conservazione del tenore di vita matrimoniale non costituisce più un parametro di riferimento utilizzabile né ai fini del giudizio sull’an debeatur né di quello sul quantum debeatur, la cui determinazione è finalizzata a consentire all’ex coniuge il raggiungimento dell’indipendenza economica». «A giustificare l’attribuzione dell’assegno non è, quindi, di per sé, lo squilibrio o il divario tra le condizioni reddituali delle parti, all’epoca del divorzio, né il peggioramento delle condizioni del coniuge richiedente, ma la mancanza della “indipendenza o autosufficienza economica”, intesa come impossibilità di condurre con i propri mezzi un’esistenza economicamente autonoma e dignitosa».
Non solo, nel fare una simile valutazione, il giudice dovrà considerare i bisogni del richiedente «come persona singola e non come ex coniuge», sebbene tenendo conto del «contesto sociale». E per determinare la soglia dell’indipendenza economica si dovrà guardare alle «indicazioni provenienti, nel momento storico, dalla coscienza collettiva», operando una valutazione «né bloccata alla soglia della pura sopravvivenza né eccedente il livello della normalità».

La Suprema corte ha poi rigetto anche la richiesta di assegnazione della casa coniugale dal momento che l’unico figlio della coppia era maggiorenne e viveva con il padre. L’assegnazione della casa, si legge nella decisione, è subordinata «alla presenza di figli, minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, conviventi con i genitori». La ratio infatti è quella di tutelare «l’interesse dei figli a permanere nell’ambiente domestico in cui sono cresciuti». Mentre, conclude, «non è configurabile in presenza di figli economicamente autosufficienti, sebbene ancora conviventi, verso cui non sussiste alcuna esigenza di speciale protezione».

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