Corte di cassazione – Sentenza 31 marzo 2020 n. 10905
Non incorre nel rischio di una sanzione penale chi insulta l’interlocutore in una video chat, anche se alla presenza di più persone. Non scatta infatti il reato di diffamazione, dal momento che la persona offesa è presente, ma si rientra nella fattispecie dell’ingiuria che però è stata depenalizzata dalla legge n. 7 del 2016. La Corte di cassazione, sentenza n. 10905 di oggi, ha così accolto il ricorso di un uomo che era stato condannato al pagamento di 600 euro di multa.
Secondo la Corte di appello di Milano, che a sua volta aveva confermato la condanna del Tribunale di Monza, invece, l’imputato era colpevole di diffamazione per aver offeso la vittima tramite una video chat accessibile “ad un numero indeterminato di persone”.
Contro questa decisione il ricorrente ha dedotto violazione di legge “per aver ritenuto sussistente il reato di diffamazione, anziché la fattispecie di ingiuria”. Gli insulti infatti erano stati rivolti attraverso la piattaforma “Google Hangouts, diversa dalle altre piattaforme chat digitali che sono ‘leggibili’ anche da più persone”. Inoltre il destinatario dei messaggi “era solo la persona offesa e la video chat aveva carattere temporaneo”, né rilevava in alcun modo che all’ascolto vi fossero anche altri utenti.
Per la Cassazione il ricorso è fondato. Secondo la Quinta sezione penale infatti è incontroverso che le espressioni offensive sona state pronunciate dall’imputato mediante comunicazione telematica diretta alla persona offesa, ed alla presenza di altre persone ‘invitate’ nella chat vocale; tuttavia, “l’elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione – rammenta la Corte – è costituito dal fatto che nell’ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all’offeso, mentre nella diffamazione l’offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l’offensore”.
Ne consegue che il fatto deve essere qualificato come ingiuria “aggravata dalla presenza di più persone” (ai sensi dell’art. 594, c.p.), reato che, però, come detto, è stato depenalizzato dall’art. 1, co. 1, lett. c), della legge 15 gennaio 2016 n. 7. La sentenza impugnata è stata quindi annullata perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.