No al licenziamento di chi registra i colleghi per difendersi

Non solo è illegittimo ma scatta anche la reintegra del dipendente licenziato, per grave violazione della privacy, per aver registrato, e filmato, delle conversazioni ad insaputa dei colleghi, senza averle mai diffuse all’esterno, ed al solo fine di precostituirsi degli elementi di difesa per salvaguardare la propria posizione in azienda. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 10 maggio 2018 n. 11322, accogliendo il ricorso di un dipendente di una importante compagnia assicurativa che dopo aver perso in primo grado, in appello era riuscito ad ottenere unicamente la tutela risarcitoria (pari a 15 mensilità). Secondo il giudice di secondo grado infatti l’impiegato non aveva dimostrato il carattere ritorsivo o discriminatorio del provvedimento espulsivo.

Di diverso avviso la Suprema corte secondo cui invece «il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in presenza del consenso dell’interessato, può essere eseguito anche in assenza di tale consenso, se è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge, e ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento».
«Si tratta – prosegue la decisione -, come è di tutta evidenza, della previsione di una deroga che rende l’attività, se svolta nel rispetto delle condizioni ivi previste, di per sé già a monte lecita».

Laddove, dunque, continua la Corte, «il trattamento dei dati personali operato in assenza del consenso del titolare sia strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto […] è evidentemente anche insussistnte il presupposto delle condotte incriminatrici previste dall’art. 167, co. 1, del Dlgs n. 196/2003». Per la Cassazione, dunque, «si trattava di una condotta legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità, che come tale non poteva in alcun modo integrare non solo l’illecito penale ma anche quello disciplinare, rispondendo alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, ciò sia alla stregua dell’indicata previsione derogatoria del codice della privacy sia sulla base dell’esistenza della scriminante generale dell’art. 51 c.p., di portata generale e non già limitata a mero ambito penalistico».

«Altro sarebbe stato, sia ben chiaro, argomenta la Corte, se si fosse trattato di registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a fini illeciti (ad esempio estorsivi o di violenza privata)». Per i giudici di legittimità dunque «la condotta, in sé lecita, non poteva rilevare in sede disciplinare». Infine, con un principio di diritto la Cassazione afferma che «l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’articolo 18 Statuto dei lavoratori, come modificato dall’art. 1, co. 42, della legge n. 92 del 2012, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità».

 

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